L’Egitto ostaggio dei militari

Il caso Regeni e la vendita di due navi da guerra al Cairo per 1,2 miliardi di euro. La detenzione di Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna in carcere da oltre quattro mesi in Egitto con l’accusa di propaganda sovversiva su Facebook. Il ruolo di Abdel Fattah Al Sisi a sostegno del generale della Cirenaica Khalifa Haftar nel caos libico. Nelle ultime settimane in Italia si è tornato a parlare molto di Egitto. Un Paese «così vicino e così lontano» dal nostro, che spesso proviamo a decifrare senza però tener conto di chi, al suo interno, detta realmente le regole del gioco: i militari. Ne abbiamo discusso su Babilon Magazine con Giuseppe Dentice, associate research fellow Medio Oriente e Nord Africa per ISPI, l’Istituto per gli studi di politica internazionale.

 Con l’avvento di Al Sisi al potere in Egitto, nell’estate del 2013, in che misura è aumentato il controllo dei militari sui principali asset dell’economia egiziana?

La presenza dei militari in economia è la manifestazione più completa e comprovata della crescita di influenza della casta militare nella società e nelle strutture dello Stato egiziano. Un incremento che è andato in crescendo di pari passo con il consolidamento della presa del regime sulla popolazione e le istituzioni. Infatti, fin dal 2013 il processo ha visto i militari espandere la presenza sottoforma di aziende di Stato, acquisizioni di aziende private, attività pubbliche o private gestite da ex militari.

Questo cosa ha significato?

Il 2013 ha definito una trasformazione del ruolo della presenza dei militari in economia in termini sia di portata sia di scala. Questa trasformazione ha portato a creare una zona grigia in cui i militari vivono e proliferano all’interno di un sistema autonomo, nel quale si atteggiano da attore indipendente rispetto al sistema statale e alle sue leggi. In sostanza un attore superiore alla legge, che può rimodellare i mercati e influenzare l’impostazione delle politiche del governo e le strategie di investimento. Un attore totale che controlla dal manifatturiero alla chimica, dagli armamenti alla farmaceutica, dall’edilizia ai beni di prima necessità, financo il settore cinematografico. Inoltre, le imprese dei militari sono coinvolte in tutti i più importanti progetti infrastrutturali del paese: dal raddoppio del Canale di Suez alla costruzione della nuova capitale a est del Cairo. In breve, i militari sono in grado di controllare il 20-60% dell’economia nazionale – il range è molto profondo e non sempre chiaramente deducibile per via della eterogeneità delle attività gestite dai militari – sebbene in termini ufficiali questa forbice si abbassi a toccare stime del 2-3%.

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In cosa è poco «trasparente» la gestione del potere economico da parte dei militari egiziani? E quali sono i principali errori che i militari egiziani stanno commettendo nella gestione di questo potere?

La gestione poco trasparente consiste in varie questioni. Ad esempio le attività legate al mondo militare non sono sottoposte al riesame del controllo della magistratura civile e contabile. Questo radicamento dei militari in economia e nella società, oltre a definire un’occupazione di tutti gli spazi possibili, definisce un processo di esclusione di tutti quei possibili attori in competizione con loro nel campo civile. Quest’azione produce un effetto dannoso anche in termini di perseguimento del processo democratico, aggravando una situazione socio-economica molto complicata e oppressa dalla compresenza di cause interne (struttura dirigistica, presenza e influenza di gruppi di interesse particolari di tipo mono-oligopolistico, burocrazia elefantiaca, bassa produttività, scarsa innovazione tecnologica) ed esterne (dipendenza dalle entrate del turismo, dalle rimesse dei lavoratori stranieri, dai pedaggi del Canale di Suez e più in generale dagli aiuti esterni degli Usa e dei Paesi del Golfo), che hanno reso il contesto nazionale egiziano instabile, depresso e potenzialmente esplosivo, per certi versi simile a quello pre-rivoluzionario del 2011. Questo nonostante la massiccia dote del piano internazionale del Fondo Monetario Internazionale da 12 miliardi di dollari, condizionato all’introduzione di riforme interne, che ha in parte migliorato la situazione economica. Tutto ciò però non tocca i militari, favorendo un’aurea di impunità nei loro confronti e, in un certo senso, legittimando la percezione di una loro intoccabilità.

Quanto il potere dei militari egiziani sta frenando il potenziale di crescita dell’economia egiziana?

È innegabile che il radicamento militare nelle strutture dello Stato, dall’economia alla magistratura, ha portato il Paese a vivere una difficile condizione di limbo nel quale il sistema rentieristico creato dagli anni Cinquanta dai militari è oggi decisamente forte e intaccabile dall’esterno, mentre la popolazione vive una condizione di estrema difficoltà, che ha portato più complessivamente le fasce medio-basse a vivere un generale impoverimento delle risorse e delle disponibilità a loro favore. Tutto ciò impedisce, al contempo, la creazione di un vero e proprio sistema liberale e liberistico di mercato. Infine, e forse questo è il problema più grande non valutato appieno dagli addetti ai lavori, con un inasprimento delle libertà civili e politiche, pubbliche e private, personali e collettive, il Paese non potrà vantare alcun miglioramento che possa aiutare a fortificare il regime. Anzi questa condizione favorisce per lo più un approfondimento delle crepe esistenti, che possono ingigantirsi a seconda della miopia del regime di salvaguardare se stesso piuttosto che migliorare la condizione generale della collettività.

 La dinamica del caso Regeni, con lo «strano» rinvenimento del corpo del ricercatore italiano sul ciglio di una strada trafficata al Cairo, ha dimostrato che Al Sisi ha le sue difficoltà nel tenere insieme le varie anime dell’esercito e dell’intelligence egiziani. A distanza di quattro anni da quell’omicidio, il presidente rimane «ostaggio» dei militari?

Come la precedente esperienza mubarakiana, le peculiarità principali del regime odierno sono il metodo autoritario, il controllo capillare e pervasivo di tutti i centri decisionali, il consenso consolidato attraverso la repressione sistematica del dissenso. Nonostante l’apparente saldezza del regime, esso esprime insicurezze e incertezze che alimentano gli interrogativi sulla capacità di Al Sisi di esercitare realmente e in modo efficace il potere arbitrario che si è attribuito. Di fatto, l’Egitto odierno assomiglia a una sorta di autocrazia, non sempre coesa e ben definita, che opera in termini di interessi e di espressioni di potere a volte convergenti, altre volte in totale contrasto tra loro. Metafora di questo modello sono le forze di sicurezza (polizia, esercito e intelligence) in competizione e allo stesso tempo alleate per salvaguardare la stabilità del regime. Queste strutture sono state in grado di perpetuare un sistema di repressione delle opposizioni politiche e dei movimenti della società civile, favorendo un ritorno ad uno stato di polizia simile alle precedenti esperienze. Ora è evidente che Al Sisi resiste e resisterà finché i militari, che sono l’attore preponderante all’interno delle forze di sicurezza, decideranno di appoggiarne le sue iniziative. Il perché è facilmente intuibile: Al Sisi è espressione ed emanazione diretta dei militari. Finché loro lo reputeranno utile ai loro obiettivi, il presidente rimarrà più o meno saldamente in sella; viceversa verrà sostituito da qualcuno che possa meglio asservire ai loro indirizzi e interessi.

Per approfondire Babilon consiglia:

L’Egitto dei militari, parte del libro di Marco Giaconi “Le guerre degli altri. Piccoli e grandi eserciti del mondo” edito da Paesi Edizioni.

An Egyptian soldier. AFP file photo