Egitto: Piazza Tahrir torna a urlare

A partire dalla fine di settembre, povertà, disuguaglianza e corruzione hanno spinto centinaia di giovani egiziani a scendere in piazza per domandare le dimissioni del Presidente Abdel Fattah al-Sisi.

Non è la prima volta che in Egitto la legittimità del regime viene ostacolata dalla voce popolare. È successo nel 2011, anno delle primavere arabe, che ha portato alla caduta di Mubarak. Poi di nuovo nel 2013, quando il colpo di Stato dell’esercito ha portato alla caduta dell’unico Presidente democraticamente eletto, Morsi, e all’ascesa di al-Sisi. Ed è successo nuovamente la notte del 20 settembre, quando centinaia di egiziani sono scesi in piazza per protestare contro il regime e il carovita. A scatenare le proteste sono le accuse di corruzione mosse al Presidente e all’establishment militare da parte di Mohamed Ali, giovane imprenditore e contractor che lavorava a stretto contatto con le Autorità egiziane. Migliaia i giovani scesi in Piazza Tahrir, subito seguita da Suez, Alessandria, Damietta e altre città situate a nord della capitale. Tempestivamente le forze di polizia hanno bloccato gli accessi a Piazza Tahrir con barricate e posti di blocco. È sopratutto nelle città del Cairo e di Suez, che si assiste al maggior numero di arresti, in quello che Amnesty International ha definito il più grande crackdown mai compiuto da quando al-Sisi è al potere. Un procedimento penale di massa, che ha portato all‘arresto arbitrario e forzato di dozzine di persone, le quali sono state condotte presso le stazioni di polizia e sottoposte a duri interrogatori durati anche tutta la notte. Arbitrarietà che si traduce anche in sparizioni forzate e torture. 274 il numero delle persone alle quali è stata negata la possibilità di contattare le rispettive famiglie o i lori avvocati. In Egitto ci sono all’incirca 230 casi di sparizioni forzate, come quella di Alaa Abdel Fattah, noto attivista politico, o di quei 111 ragazzi (tra gli 11 e 17 anni) le cui famiglie non hanno avuto notizie per due o dieci giorni. Infine, il caso di Esraa Abdelfattah, giornalista e attivista per i diritti umani, arrestata e torturata in carcere. Oggi regna il silenzio in Piazza Tahrir, che rimarrà chiusa per lavori di abbellimento e rinnovamento, al fine di prevenire qualsiasi possibilità di future proteste che possano deturparne la bellezza.

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Le proteste e gli scontri di piazza costituiscono un vocabolario attraverso cui esprimere quella rabbia e quella frustrazione che non hanno trovato altre parole. I giovani scesi in piazza sono gli eredi di un periodo post-rivoluzionario, il 2011, che ha tradito quelli che erano gli obbiettivi della rivoluzione: sicurezza, libertà, crescita e occupazione. Infatti, nonostante l’economia egiziana cresca del 5,5% l’anno, il tasso di povertà è raddoppiato a partire dagli anni Duemila. Questo trend negativo è il risultato di alcune politiche economiche attuate dal Governo, a seguito di un accordo concluso con il Fondo Monetario Internazionale, nel 2016, per un prestito di 12 miliardi di dollari. Riforme che si sono tradotte in austerità: tagli ai sussidi su gas e elettricità, tagli alla spesa pubblica e aumento dell’Iva. A questo bisogna aggiungere che il 38% dei fondi statali vengono utilizzati per pagare gli interessi sul debito. Contestualmente la spesa militare negli ultimi anni è cresciuta del 215%, rendendo l’Egitto il terzo importare di armi al mondo. Una politica economica in pompa magna, basata su mega costruzioni e ingenti spese in armamenti, mentre il popolo paga le conseguenze: il 32,5% della popolazione egiziana vive al di sotto della soglia di povertà, non riuscendo a soddisfare bisogni primari quali cibo, alloggio, vestiti, istruzione, salute e trasporti. Il tasso di disoccupazione dei giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni, è del 34,4%. Altrettanto alto, tra i giovani, il numero di analfabeti: 1.975.700. L’economia egiziana è un’economia di tipo clientelare, un’economia opaca, fatta di favoritismi per garantire un continuo sostegno politico all’élite di Governo. Queste dinamiche hanno bloccato uno sviluppo politico, economico e sociale che favorisse l’inclusione delle fasce più deboli, che rimangono quindi sempre più marginalizzate, incapaci di influenzare il processo di decision-making, sempre più accentrato e verticistico.

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Barricate e posti di blocco non possono mettere a tacere la voce delle periferie. Così, quando le proteste si sono intensificate, il Governo egiziano ha autorizzato le forze dell’ordine a disperdere la folla, anche con metodi violenti se necessario. La polizia ha risposto con un crackdown, lanciando lacrimogeni, sparando proiettili di gomma sulla folla e arrestando oltre 2mila manifestanti. Tra questi, come riporta Amnesty International, ci sono giornalisti, avvocati per i diritti umani, giovani soprattutto tra i 15 e 30 anni, professori universitari e figure politiche appartenenti all’opposizione. Povertà, diseguaglianze sociali ed economiche, assenza di libertà civili e politiche e disoccupazione giovanile mettono a dura prova la tenuta del regime. Tuttavia fino a quando non ci saranno soggetti d’opposizione che riescano a canalizzare la rabbia e la frustrazione del popolo, sarà difficile per una società civile così fragile agire da forza anti-sistema. Quale alternativa quindi per il popolo? In un contesto come quello egiziano, dove non abbiamo opposizione politica strutturata e organizzata, l’unica forza e “alternativa politica” sembra essere l’esercito. Le speranze dovrebbero quindi rivolgersi all’appetito dell’esercito?
Voci di corridoio affermano che il fronte degli ufficiali vicini a Sami Annan (ex capo di Stato Maggiore, ora detenuto in carcere a seguito della sua candidatura alle elezioni presidenziali del 2018) si dichiara disposto a sostenere le istanze popolari, invitando gli egiziani a scendere in piazza per chiedere le dimissioni del Presidente. Sembrerebbe quindi che la base sociale e l’oligarchia dominante, che hanno supportato al-Sisi in questi sei anni di relativa pace sociale, si stiano lentamente sgretolando. Fazionismo e aspirazioni personali all’interno dell’esercito infatti, non aiutano il regime. E così tocca al figlio proteggere il padre. Mahmoud al-Sisi, figlio del Presidente e sottosegretario generale dell’Intelligence, «ha incaricato un comitato di uomini fidati di avviare un’indagine approfondita sui funzionari dei servizi segreti» per paura di una possibile rivolta interna. Rivolta che potrebbe trasformarsi in un possibile colpo di Stato? Nonostante oggi regni il silenzio in Piazza Tahrir, sembra che la primavera bussi anticipatamente alle porte del Medio Oriente, come dimostrano le proteste scoppiate in Iraq e in Libano.

Valentina Ricco, Il Caffè Geopolitico