Hong Kong, ancora proteste e 230 arresti

Ad Hong Kong il nuovo coronavirus potrebbe presto sparire del tutto, ma è difficile che il territorio semiautonomo riesca a rinunciare al virus della democrazia. Con il rallentamento della diffusione della Covid-19, sono ricominciate le proteste contro Pechino e governo locale, accusato di essere troppo vicino alla Cina. Le manifestazioni di domenica 10 maggio, le più rilevanti da alcuni mesi, hanno causato l’arresto di 230 persone. La polizia, in tenuta antisommossa, ha cercato di disperdere i manifestanti con spray urticanti e manganelli, attaccando anche i giornalisti. Nel distretto Mong Kok, famoso per lo shopping, alcuni manifestanti hanno tentato di dare fuoco ai cassonetti della spazzatura.

Le proteste pro democrazia ad Hong Kong erano iniziate nel giugno del 2019 e si erano protratte fino al mese di novembre, quando la vittoria del fronte democratico alle elezioni locali aveva evidenziato che la maggioranza della popolazione si oppone interferenze cinesi. La protesta era andata ben oltre la questione del contestato disegno di legge sull’estradizione, trasformandosi in una forma di resistenza e di sfida nei confronti Pechino, accusata dagli abitanti di Hong Kong di perseguire da anni una politica volta a cambiare la natura democratica dell’ex possedimento britannico.

 

Nei primi mesi del 2020 c’erano state nuove manifestazioni ma, a causa del distanziamento sociale e delle misure restrittive necessarie a contenere l’epidemia da Coronavirus, le iniziative contro il governo erano state congelate per quasi due mesi. L’8 marzo c’era stato un raduno a Tseung Kwan O per ricordare lo studente Alex Chow Tsz-lok, morto in circostanze poco chiare a seguito di un trauma cranico riportato durante uno scontro con la polizia. L’iniziativa non era stata approvata dalle forze dell’ordine e per questo c’erano state nuove tensioni tra polizia e manifestanti. Il 26 aprile, invece, un centinaio di cittadini aveva partecipato a una manifestazione dai toni sicuramente più pacifici all’interno del centro commerciale Cityplaza. La polizia anche in quel caso era subito intervenuta per disperdere i manifestanti. Ad Hong Kong il governo locale era stato chiamato a gestire una seconda ondata di contagi, che aveva generato nuovo allarme nel territorio. Tuttavia, la spinosa questione della definizione del rapporto tra governo locale e quello centrale di Pechino non era stata risolta. Il timore di una maggiore ingerenza cinese era rimasto in sospeso e, come ci si aspettava, tale timore è tornato a galla in seguito al sostanzioso calo nel numero di infezioni da Covid-19.

Hong Kong è tra gli esempi virtuosi nella lotta al virus. Il governo filocinese di Carrie Lam è riuscito a contenere i contagi, di poco superiori ai mille nonostante i legami e i collegamenti con la Cina continentale. Carrie Lam, però, è stata criticata molto duramente a causa delle misure tardive e dell’atteggiamento giudicato troppo permissivo verso Pechino. Molto discussa la decisione di non chiudere sin dalle prime fasi dell’emergenza, ovvero fine gennaio, i confini con la Repubblica Popolare. Una decisione che ha generato una certa frustrazione tra gli specialisti di malattie infettive. Solo in seguito allo sciopero del personale medico, rimasto a corto di mascherine chirurgiche e di camici, la governatrice Lam ha imposto una quarantena di 14 giorni per chiunque arrivasse dalla Cina. L’atteggiamento di Lam ha confermato le paure di chi la voleva troppo accondiscendente verso Pechino, la ragione principale che dall’estate dell’anno scorso ha portato in piazza milioni di cittadini di Hong Kong.

Pubblicato su Il Mattino