L’Asia meridionale, cuore pulsante di tensioni geopolitiche e rivalità storiche, si trova nuovamente sull’orlo del precipizio. L’attentato terroristico del 22 aprile a Pahalgam, nel Kashmir indiano, ha riacceso una crisi latente che coinvolge India, Pakistan e, indirettamente, la Cina. L’evento, che ha visto la morte di 28 civili, per lo più turisti indù, ha innescato una catena di reazioni militari e diplomatiche che rischiano di destabilizzare non solo la regione himalayana, ma anche gli equilibri di potere dell’intero continente asiatico. In questo scenario, la questione del Kashmir si conferma epicentro di una contesa che intreccia identità, risorse, strategie militari e interessi globali, mentre il Pakistan si rivela ancora una volta un mosaico di identità fragili e aspirazioni contraddittorie.
Attentato, ritorsioni e paura nucleare
L’attentato di Pahalgam, attribuito dall’India a cellule terroristiche legate al Lashkar-e-Taiba e, indirettamente, ai servizi pakistani, ha rappresentato l’ennesimo episodio di una lunga serie di attacchi transfrontalieri che segnano la storia recente della regione. La risposta indiana non si è fatta attendere: il 7 maggio, Nuova Delhi ha lanciato l’“Operazione Sindoor”, colpendo con missili e raid aerei nove obiettivi tra il Kashmir pakistano e il Punjab. L’India ha dichiarato di aver neutralizzato infrastrutture chiave di gruppi come Jaish-e-Mohammed e Lashkar-e-Taiba, sottolineando la natura “mirata e misurata” dell’operazione e negando di aver preso di mira installazioni militari pakistane. Tuttavia, tra le vittime figurano almeno 26 civili, inclusi donne e bambini, e sono stati colpiti anche una moschea e una clinica medica. Tra gli obiettivi dichiarati, l’uccisione di Maulana Masood Azhar, leader carismatico di Jaish-e-Mohammed, insieme a membri della sua famiglia, rappresenta un segnale forte della determinazione indiana a colpire i vertici del terrorismo regionale.
La reazione pakistana è stata immediata e dura: Islamabad ha definito l’operazione indiana un “atto di guerra”, sostenendo di aver abbattuto 5 jet indiani e promettendo una risposta adeguata. Nei raid di rappresaglia, l’aviazione pakistana ha colpito obiettivi civili nel Kashmir indiano, causando almeno 8 morti e decine di feriti. Il clima di tensione ha portato alla chiusura di scuole, aeroporti e alla cancellazione di centinaia di voli in entrambe le nazioni, mentre la comunità internazionale ha espresso forte preoccupazione per il rischio di un’escalation tra due potenze nucleari.
Kashmir: crocevia di identità, risorse e strategie
Per comprendere la portata della crisi, è necessario tornare alle radici storiche della questione kashmira. La regione, incastonata tra India, Pakistan e Cina, è da sempre teatro di scontri e rivendicazioni. La sua importanza strategica si articola su più livelli: il controllo delle risorse idriche dei fiumi Indo, Jhelum e Chenab è vitale per l’agricoltura e l’approvvigionamento idrico di entrambi i Paesi; la posizione geografica, al confine con la Cina e l’Afghanistan, rende il Kashmir un crocevia per i traffici e le influenze nell’Asia meridionale; infine, il valore simbolico della regione è enorme, rappresentando per l’India la laicità dello Stato e per il Pakistan il completamento del progetto di patria musulmana.
La disputa affonda le sue radici nella Partizione del 1947, quando il maharaja hindu del Kashmir decise di aderire all’India nonostante la maggioranza musulmana della popolazione. Questa scelta innescò il primo di tre conflitti armati tra India e Pakistan (1947, 1965, 1999) e decenni di scontri minori, alimentati da nazionalismi, rivendicazioni territoriali e l’azione di gruppi separatisti e jihadisti. L’India, negli ultimi anni, ha rafforzato il proprio controllo amministrativo sulla regione, revocando nel 2019 lo status speciale del Jammu e Kashmir e intensificando la presenza militare e la sorveglianza. Il Pakistan, invece, ha continuato a sostenere, direttamente o indirettamente, gruppi armati e reti terroristiche, pur negando ufficialmente ogni coinvolgimento.
Pakistan: un mosaico di identità e contraddizioni
La fragilità del Pakistan come Stato nazionale è un elemento chiave per comprendere la sua politica estera e il suo ruolo nella crisi kashmira. Nato nel 1947 come patria dei musulmani del subcontinente indiano, il Pakistan ha sempre faticato a costruire un’identità nazionale coesa. Le divisioni etniche – tra Punjabi, Sindhi, Pashtun e Baluchi – si intrecciano con le differenze religiose, tra sunniti, sciiti e minoranze, generando tensioni politiche e sociali che si riflettono anche nella gestione del potere. La storia politica del Pakistan è segnata dall’alternanza tra governi civili e regimi militari, con l’esercito che ha spesso assunto un ruolo centrale, giustificato dalla necessità di garantire sicurezza e unità nazionale. Tuttavia, questa centralità militare ha limitato lo sviluppo democratico, alimentando corruzione, nepotismo e instabilità istituzionale.
Un evento cruciale nella storia del Pakistan è stata la guerra civile del 1971, che ha portato alla secessione del Pakistan orientale e alla nascita del Bangladesh. Questo trauma nazionale ha lasciato profonde ferite e ha rafforzato la percezione di una minaccia esistenziale proveniente sia dall’India sia dalle divisioni interne. I principali partiti politici, dal progressista Pakistan People’s Party al conservatore Pakistan Muslim League-N, hanno faticato a governare un Paese segnato da crisi economiche, crescita demografica incontrollata, povertà diffusa e terrorismo.
L’Islam, in tutte le sue declinazioni, gioca un ruolo fondamentale nell’identità e nella politica pakistana, con partiti religiosi che promuovono un’interpretazione conservatrice e influenzano le dinamiche interne. Il sostegno, più o meno velato, a gruppi militanti attivi nel Kashmir risponde sia a esigenze di politica interna – rafforzare il consenso nazionalista e religioso – sia a una strategia di contenimento dell’India, percepita come minaccia esistenziale.
Economia, instabilità e dipendenze esterne
Sul piano economico, il Pakistan si trova in una situazione di estrema fragilità. Dopo la recessione del 2023, il Paese dipende da un prestito del Fondo Monetario Internazionale da sette miliardi di dollari e dagli aiuti sauditi, senza i quali rischierebbe il default. L’India, pur rallentando la crescita rispetto agli anni precedenti, mantiene una traiettoria di espansione, con un PIL in aumento e una progressiva diversificazione industriale e tecnologica. Questa asimmetria economica si riflette anche nella capacità di sostenere uno sforzo bellico prolungato e nella resilienza alle crisi internazionali.
Le dottrine nucleari dei due Paesi aggiungono un ulteriore livello di rischio: l’India dispone di circa 160 testate nucleari, il Pakistan di 170, entrambe con la possibilità di utilizzo in caso di “minaccia esistenziale”. Un conflitto nucleare, anche limitato, avrebbe conseguenze catastrofiche per l’intera regione e per il mondo, con milioni di morti, collassi economici e un possibile “inverno nucleare” dagli effetti globali.
Il Grande Gioco asiatico
La crisi del Kashmir non è solo una questione bilaterale tra India e Pakistan, ma si inserisce in un contesto geopolitico molto più ampio. La Cina, alleata storica del Pakistan, ha investito oltre 62 miliardi di dollari nel Corridoio Economico Cina-Pakistan (CPEC), un’infrastruttura strategica che collega la regione cinese dello Xinjiang al porto di Gwadar, offrendo a Pechino un accesso diretto all’Oceano Indiano e rafforzando la propria presenza nell’Asia meridionale. La Cina controlla anche parte del territorio kashmiro (Aksai Chin) e vede nell’ascesa indiana una minaccia al proprio progetto di egemonia regionale.
L’Arabia Saudita, principale finanziatore di Islamabad, ha erogato prestiti per oltre 130 miliardi di dollari, ma negli ultimi anni spinge per un riavvicinamento a Israele, creando tensioni con la tradizionale posizione pakistana. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea, pur promuovendo mediazioni diplomatiche, sono divisi tra interessi strategici – l’alleanza USA-India per contenere la Cina – e pressioni umanitarie legate alle violazioni dei diritti umani nella regione. Russia e Turchia, invece, mantengono un atteggiamento più prudente, osservando con attenzione l’evolversi della crisi senza prendere posizioni nette.
Cina e India: rivalità, dialogo e fragile distensione
Nel 2025, i rapporti tra Cina e India restano segnati da una profonda competizione strategica, soprattutto per il controllo delle aree di confine himalayane come Ladakh e Arunachal Pradesh. Dopo lo scontro armato del 2020 nella valle di Galwan, che ha causato la morte di almeno venti soldati indiani, la situazione è rimasta tesa, con episodi di confronto e militarizzazione lungo la Linea di Controllo Effettivo (LAC). Tuttavia, tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025, si sono registrati segnali di distensione: accordi per il ritiro parziale delle truppe, ripristino di voli diretti e scambi tra giornalisti, nonché un incontro tra Modi e Xi Jinping durante il vertice BRICS+ a Kazan, il primo dialogo diretto tra i due leader dopo cinque anni.
Nonostante questi segnali positivi, la diffidenza reciproca resta elevata. L’India percepisce come una minaccia l’espansione dell’influenza cinese nei Paesi vicini – Pakistan, Sri Lanka, Bangladesh, Myanmar – e il sostegno di Pechino a Islamabad, mentre la Cina guarda con sospetto al rafforzamento dei legami tra India e Stati Uniti. Entrambe le potenze cercano di definire le rispettive sfere d’influenza in Asia, con la Cina impegnata nella Belt and Road Initiative e l’India nella “Look East Policy” per contenere l’accerchiamento strategico cinese. Sul piano economico, nonostante le tensioni, l’interscambio commerciale tra i due Paesi è in crescita e rappresenta un deterrente importante contro una possibile escalation militare.
Oceano Indiano: nuovo scacchiere della competizione globale
La regione dell’Oceano Indiano è diventata il fulcro dei traffici marittimi globali e, quindi, un’area di crescente competizione strategica. Il Corridoio Cina-Pakistan e il porto di Gwadar offrono a Pechino un accesso privilegiato alle rotte commerciali verso Africa, Medio Oriente ed Europa, mentre l’India investe nel porto iraniano di Chabahar per rafforzare la propria posizione e aggirare il blocco pakistano verso l’Afghanistan e l’Asia centrale. Questa competizione infrastrutturale si inserisce in una più ampia strategia di contenimento dell’espansionismo cinese, sostenuta anche dagli Stati Uniti.
Prospettive e soluzioni
La nuova escalation tra India e Pakistan dimostra quanto il Kashmir resti una polveriera pronta a esplodere, con il rischio di trascinare nella crisi anche le grandi potenze. La soluzione richiede un ritorno al dialogo bilaterale, interrotto dal 2019, un monitoraggio internazionale sulle violazioni dei diritti umani e misure concrete contro il finanziamento dei gruppi terroristici. Tuttavia, la posta in gioco supera i confini regionali: in un mondo multipolare, il Kashmir è diventato il banco di prova per la gestione dei conflitti nell’era atomica.
L’India non si affida esclusivamente al confronto militare per esercitare pressioni sul Pakistan; sta infatti perseguendo attivamente una serie di strategie alternative volte a sfruttare le vulnerabilità economiche del Pakistan. Queste misure includono sforzi diplomatici, sanzioni economiche e restrizioni commerciali, tutte mirate a isolare il Pakistan a livello internazionale e a indebolirne la stabilità finanziaria.
Ad esempio, funzionari indiani hanno sollecitato il Fondo Monetario Internazionale a negare al Pakistan un prestito cruciale da 7 miliardi di dollari, fondamentale per stabilizzare l’economia pakistana e finanziare servizi pubblici essenziali. L’India si è inoltre ritirata da un trattato di lunga data sulla condivisione delle risorse idriche, mossa che il Pakistan ha definito un atto di guerra a causa del potenziale impatto sulla sua sicurezza idrica.
Sul fronte economico, l’India ha attuato un embargo commerciale completo, vietando tutte le importazioni dal Pakistan, chiudendo il proprio spazio aereo agli aerei pakistani e bloccando il valico di Attari, la principale via di commercio terrestre tra i due Paesi. I porti indiani sono ora chiusi alle navi pakistane, con conseguente congelamento totale del commercio bilaterale. Inoltre, l’India sta facendo pressioni su organizzazioni internazionali come la Banca Asiatica di Sviluppo e la Financial Action Task Force (FATF) affinché taglino gli aiuti e aumentino il livello di controllo sul Pakistan.
Queste azioni stanno già avendo un impatto grave sull’economia fragile del Pakistan, alle prese con un’inflazione elevata, un debito crescente e riserve valutarie in diminuzione. L’approccio dell’India dimostra un uso calcolato degli strumenti economici e diplomatici per esercitare pressione sul Pakistan, al di là della minaccia di un’azione militare diretta.
Il futuro della regione dipenderà dalla capacità di India, Pakistan e Cina di bilanciare rivalità e cooperazione, evitando che la prossima crisi si trasformi in una catastrofe globale. In questo scenario, la stabilità dell’Asia meridionale resta una sfida aperta, che richiede visione strategica, coraggio politico e un rinnovato impegno multilaterale.
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