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Quelli che stiamo vivendo sono tempi difficili e pieni di cambiamenti, con problematiche «complesse» come tendono a definirle i diplomatici. Questo libro di Paolo Quercia e Michela Mercuri riesce a fotografare in modo straordinariamente chiaro e preciso la mutevole complessità di quello che è lo spazio geopolitico attorno all’Italia. Senza voler utilizzare citazioni storiche o termini retorici, il Mediterraneo è stato e continua a essere uno spazio fondamentale in cui si decidono la sicurezza, la stabilità e la prosperità del nostro Paese. Oggi, come nei secoli scorsi, il destino dell’Italia e della stessa Europa continua a essere segnato attorno a questo piccolo mare, racchiuso tra tre continenti e attraverso il quale – come ricordano gli autori – passa il 20% del traffico marittimo mondiale. Basta che una nave si incagli nel Canale di Suez e il flusso di commercio globale è immediatamente ridimensionato.

LibiaIl Mediterraneo di oggi è tuttavia profondamente diverso rispetto a quello di appena dieci anni fa. Quelle che sono state definite le primavere arabe hanno radicalmente trasformato gli interlocutori e la stabilità dello scenario. Masse di giovani delusi e frustrati si sono volute ribellare al loro destino di marginalizzazione politica e sociale. C’è chi è sceso in strada per rivendicare libertà e diritti, chi ha preferito ribellarsi in modo violento aderendo a organizzazioni terroristiche, e chi ha deciso di recidere i legami con il proprio Paese, scegliendo la via dell’immigrazione irregolare. Queste dinamiche giovanili hanno nel complesso cambiato il quadro regionale. Vorrei solo fornire un esempio. Alla fine del 2010, i ministri degli Affari Esteri, quando affrontavano le tematiche di sicurezza, citavano in genere i teatri di crisi afghano e somalo. Il Mediterraneo era allora visto come un’ancora di stabilità. Certamente, i Paesi della riva sud erano gestiti in modo eccessivamente autoritario, spesso brutale, da dittatori senza scrupoli, ma la loro direzione in politica estera era prevedibile e i loro rapporti internazionali erano tracciati da un solco di tradizionali interlocuzioni. In questi ultimi dieci anni tanto è cambiato in Libia, un Paese sprofondato in una guerra civile trasformatasi in una guerra internazionale per procura. E in Tunisia, dove l’avvento della democrazia è stato mal gestito da una classe politica instabile, divisa e incapace di rispondere alle domande di crescita e perequazione economica di un popolo sempre più frustrato. Per non parlare della Siria, dove le richieste legittime di maggiore libertà dei cittadini sono state strumentalizzate in modo barbaro da terroristi e coartate dalla repressione sanguinaria del dittatore di Damasco. Anche in Algeria il popolo è sceso in piazza per rivendicare, senza violenza, un profondo cambiamento della direzione nazionale, ottenendo per ora solo un cambio di guida del Paese. Nello stesso Egitto, lo Stato che solo apparentemente è tornato al punto di partenza pre-rivoluzionario, il disordine e l’instabilità covano sotto le ceneri dall’asfissiante violazione di diritti a danno di un popolo disilluso da speranze svanite.

In uno scenario totalmente mutato, che ha tolto alla classe dirigente europea le certezze e le prevedibili interlocuzioni di appena un decennio fa, si è innestato un altro duplice potente elemento di instabilità e disordine: da un lato, l’arretramento degli Stati Uniti nei quattro anni dell’Amministrazione Trump; dall’altro, l’aggressività di potenze regionali, come la Russia, la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti. Una legge infallibile della politica estera, come della fisica, dice che il vuoto è sempre destinato a essere riempito. Il vuoto lasciato dagli Usa è stato riempito da potenze disposte, ad esempio, a inviare armi e mercenari per ideologia e interessi di parte. Certo, possiamo chiederci per quale ragione l’Italia e l’Europa non realizzarono il piano, che era stato studiato nei dettagli, di inviare una missione militare di pace in Libia e che avrebbe potuto evitare a quel Paese anni di guerra civile. E poi possiamo continuare a chiederci per quale ragione l’Italia e l’Europa non sanzionarono l’intervento militare in Libia, in violazione dell’embargo Onu, di Russia, Emirati e Turchia. Spetterà agli storici rispondere a queste domande. Io mi limito a ricordare che l’Europa e l’Italia si sono trovate a prendere decisioni delicatissime nel momento in cui lo scenario internazionale era trasformato, in cui erano venuti meno i punti di riferimento tradizionali e, per di più, nel momento di fragilità interna dovuta alla ferita della Brexit e a opinioni pubbliche europee affascinate dalla narrativa di partiti avversi a nuovi impegni all’estero. A ciò aggiungiamo, nel caso italiano, l’instabilità politica che ha condotto a cambiare cinque ministri degli Esteri in pressoché cinque anni. É di tutta evidenza che la politica estera inizia dalla politica interna e che, per essere efficace, la nostra diplomazia non può prescindere da una certa continuità delle linee impartite dal governo.

Se i governi cambiano, è difficile che ci sia questa continuità di indicazioni. La nuova Amministrazione americana, la nuova Commissione europea e la nuova trasversale maggioranza che sostiene il governo Draghi sono tutti elementi che inducono ora a ritenere che Italia ed Europa abbiano ripreso in mano la bussola della direzione strategica nel Mediterraneo per evitare il naufragio paventato dagli autori di questo libro. Usa e Ue sembrano aver preso coscienza del fatto che soprattutto nel Mediterraneo si può rinsaldare la loro alleanza strategica diretta a contenere l’espansionismo di potenze rivali. La convergenza sulla crisi libica è un segnale in questa direzione. I prossimi anni ci diranno se questo giudizio sarà confermato. Ma di una cosa sono convinto. L’Italia può e deve svolgere un ruolo centrale a Bruxelles e nelle relazioni transatlantiche per richiamare l’attenzione dei nostri storici alleati all’esigenza di agire in modo coordinato e con iniziative comuni, e contenere e ridimensionare così le instabilità e il disordine ai confini meridionali e sudorientali dell’Europa. In quest’ottica ravviso una linea di continuità nella politica estera italiana, che sarebbe opportuno, soprattutto ora, perseguire. Mentre la Germania ha tradizionalmente sollecitato l’Ue e la Nato a guardare a est, l’Italia è stata impegnata in un’azione di advocacy a Bruxelles in favore dell’articolato e multiforme quadro di Paesi mediterranei. Ebbene, ora come mai, per aver successo nel Mediterraneo di quelle che gli autori definiscono «sovranità perdute», occorre riattivare con visione lungimirante questo approccio regionale, stimolando e spronando Ue e Nato a proporre ai partner della riva sud proposte avanzate di cooperazione strategica. Non basta mettere sul tavolo, come del resto l’Ue ha già fatto, alcuni miliardi di euro. Tanto più che la capacità di assorbimento di alcuni Paesi nordafricani è notoriamente limitata. Occorre piuttosto impegnarsi con nuove iniziative concrete, a protezione e sostegno di beni e interessi comuni mediterranei, quali l’ambiente, l’energia, la sicurezza, per attirare il favore e la disponibilità dei governi e dei popoli della riva sud. E per sostenere quella prosperità diffusa e quella sicurezza che Ue e Alleanza transatlantica hanno negli ultimi anni contribuito a promuovere ai confini orientali della Germania.

Ambasciatore Umberto Vattani
Dalla prefazione al libro
Naufragio Mediterraneo
di Michela Mercuri e Paolo Quercia