Putin_Siria

«Ho dato istruzioni al ministro della Difesa e al capo di Stato maggiore della Difesa di iniziare il ritiro del gruppo delle forze russe nei luoghi di posizione permanente». Con una visita a sorpresa nella base aerea russa di Khmeimim, situata nella provincia occidentale siriana di Latakia, il presidente russo Vladimir Putin ha dettato oggi, lunedì 11 dicembre, il primo passo della exit strategy del Cremlino dal conflitto in Siria.

Dopo aver incontrato il presidente siriano Bashar Al Assad, Putin si è rivolto ai suoi soldati ringraziandoli per la «grande vittoria» ottenuta in Siria contro lo Stato Islamico. «Non dimenticheremo mai le vittime e le perdite subite nella lotta contro il terrorismo sia qui in Siria che in Russia», ha affermato promettendo che se ISIS proverà ancora ad «alzare la testa» Mosca colpirà il Califfato come non mai. Poi è volato per Il Cairo, dove oggi incontrerà il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi e da dove si sposterà successivamente verso Ankara per un colloquio con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan.

Il blitz del capo del Cremlino a Khmeimim, ovviamente, non pone la parola fine sull’intervento della Russia in Siria. Mosca continuerà infatti a usare tanto la base aerea di Khmeimim così come la strategica base navale di Tartus sul Mediterraneo, dove stazionano le navi da guerra della sua Marina. Ma non solo. Sul tavolo restano molti altri nodi da sciogliere, tanto dal punto di vista militare quanto su quello diplomatico. Perché se è vero che entrando in guerra in Siria nel settembre del 2015 Mosca ne ha gradualmente cambiato il corso ponendosi al centro del Medio Oriente che verrà, è altrettanto vero che per Putin il rischio di rimanere impantanato in questa guerra è reale.

 

Gli scenari geopolitici

Sul piano diplomatico, come detto, la partita giocata fin qui da Mosca in Siria è stata vincente. Putin ha di fatto assunto la titolarità dei negoziati sul processo di risoluzione del conflitto siriano sottraendola a Stati Uniti e Nazioni Unite. Al punto che ormai i summit che contano sono quelli che si tengono ad Astana, in Kazakhstan, tra gli attori regionali (Damasco, Ankara e Teheran) e non a Ginevra, dove l’ONU certifica in ogni occasione la propria incapacità di incidere sulle trattative.

Con questa mossa, la Russia si è dunque confermata come l’unico interlocutore con cui deve necessariamente confrontarsi ogni parte coinvolta in prima o in seconda linea in questo conflitto. Vale per l’Amministrazione Trump, per Israele e per il fronte sunnita da una parte (in primis per Erdogan e per il principe ereditario al trono saudita Mohammed Bin Salman da una parte; così come per il fronte sciita (dunque Damasco, Teheran e, in seconda battuta, i vertici dell’organizzazione libanese Hezbollah).

Nel condurre il redini di questo negoziato globale, Putin ha provato a far prevalere la visione secondo cui Mosca è totalmente padrona di quello che sta accadendo in Siria. Non è propriamente così, e vale sia riguardo i rapporti con Damasco che, soprattutto, rispetto a quelli con l’Iran. È un dato oggettivo che la Russia ha una forte influenza sul governo siriano, in particolare sui suoi vertici militari e sull’intelligence. Intervenendo a sostegno di Assad, Mosca si è assicurata ciò che voleva, vale a dire un affaccio sul Mediterraneo con la base navale di Tartus. Allo stesso tempo, però, l’alleanza con Assad è piena di insidie e non è detto che la transizione politica di cui Putin si fa da garante avverrà senza assistere a un colpo di coda del presidente siriano.

Riguardo l’intesa con l’Iran le cose si complicano ulteriormente. La Russia guarda con molta attenzione al progetto del “corridoio sciita” che Teheran ha messo nel mirino per unire i suoi bastioni situati in Iraq, Siria e Libano. È un progetto che però verrà ostacolato con ogni mezzo da interlocutori chiave di Mosca (Israele e Arabia Saudita e, subito dietro, gli USA), il che costringerà Putin a un impegnativo gioco di pesi e contrappesi che a lungo andare potrebbe non condurre all’equilibrio sperato. Al contempo, la Russia sa di dover tenere a bada la spinta in avanti iraniana. Vanno bene gli accordi economici ed energetici, così come l’alleanza militare finora stretta con Teheran, ma fin dove e fino a che punto il Cremlino ne accetterà la presenza in Siria?

 

La situazione militare

In Siria Putin deve inoltre fare i conti con i costi dell’intervento militare in Siria, tanto economici quanto in termini di perdite di soldati. Nel marzo del 2016 Putin aveva fatto un annuncio simile a quello pronunciato oggi. Da allora, però, la Russia è andata incontro a delle sconfitte inaspettate. Le figure imbarazzanti rimediate a Palmira prima (dicembre 2016) e Deir Ezzor poi (ottobre-novembre) con ISIS dato per sconfitto e poi riapparso con veemenza, hanno lasciato il segno. A ciò si aggiunge il peso economico della campagna siriana, da sommare agli strascichi della guerra nell’est dell’Ucraina. Su questo versante, la Russia ha però messo una pezza raddrizzando la politica OPEC sui prezzi del petrolio grazie a un recente accordo con Riad, il che le permetterà almeno sulla carta di superare meglio del previsto la perdurante crisi energetica degli ultimi anni.

Infine, ci sono da considerare le morti sul terreno degli scontri di soldati e cittadini russi, oltre 130 secondo un documento ufficiale di cui è venuta in possesso l’agenzia Reuters a fine ottobre. Avanzare dei parallelismi con la débâcle dell’URSS in Afghanistan negli anni Ottanta (in dieci anni di guerra 15.000 morti) è azzardato. Pensare a similitudini con quanto accaduto agli USA nel post intervento in Afghanistan (2001) e nel dopo invasione dell’Iraq (2003) è invece più realistico. Gli Stati Uniti, ancora oggi, sono impantanati in due conflitti da cui faranno fatica ancora per anni a tirarsi fuori. Se Putin non farà le mosse giuste nei tempi giusti, per Mosca un calvario siriano non è da escludere.