Il generale Abdel Fattah Al-Burhan

Tensione sempre più alta in Sudan dove da giorni ormai sono in corso scontri armati tra l’esercito agli ordini di Abdel Fattah Al-Burhan, e Ie Forze di supporto rapido controllate da Mohamed Hamdan Dagalo. Il bilancio provvisorio degli scontri è di circa 100 vittime. Preoccupazione anche per almeno 150 italiani che si trovano attualmente nella capitale Khartoum.

Un quadro della situazione politica ed economica del Sudan, e delle sue principali criticità, è tratteggiato nel libro Africa, impresa possibile di Alessandro Vinci, edito da Paesi Edizioni. Eccone uno stralcio.

SudanIl 2019 per il Sudan verrà ricordato come l’anno della storica deposizione del presidente Omar al-Bashir, al potere dal 1989, dopo mesi di incessanti proteste contro il carovita da parte della popolazione civile. Leader dittatoriale e fondamentalista, oggetto di un mandato di cattura della Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità commessi durante il conflitto del Darfur, l’ex militare golpista inizialmente aveva usato il pugno di ferro contro i manifestanti, con un bilancio di 55 morti, 2.500 feriti e 2.000 arrestati. Nulla però ha potuto quando, circondato il palazzo presidenziale, all’alba di martedì 11 aprile il suo stesso esercito lo ha arrestato e costretto alle dimissioni.

Tuttavia, complice l’immediata sospensione della Costituzione, il giubilo popolare ha presto lasciato spazio al timore che si fosse all’inizio di un’altra stagione di repressione militare. Ne è nato un presidio permanente di fronte al quartier generale delle forze armate, seguito dallo scoppio di nuove manifestazioni per reclamare un ruolo attivo della società civile in vista di un’auspicata transizione democratica. Da lì è stato nuovamente il caos, con tre (presunti) contro-golpe sventati nei mesi successivi dal neo-insediato Consiglio militare di transizione e una lunga scia di sangue a reprimere le istanze della popolazione. Caso più eclatante, quello del 3 giugno, quando secondo alcune stime l’assalto delle forze governative al sit-in dei civili è costato la vita a oltre duecento persone, i cui cadaveri sono stati in gran parte gettati nel Nilo. Il tutto con il silenzio-assenso di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, influenti sponsor internazionali del rinnovato regime sudanese.

Ma la svolta era vicina. Così, firmata una dichiarazione costituzionale congiunta, a metà agosto le due parti hanno posto ufficialmente fine alla crisi: per i prossimi due anni il Paese verrà guidato da un Consiglio Sovrano misto (cinque militari, cinque civili, un membro indipendente) che avrà il compito di traghettare il Paese verso nuove, libere elezioni nel 2022. Per i primi 21 mesi a guidarlo sarà il generale Abdel Fattah al Burhan, capo uscente del Consiglio militare di transizione, poi il testimone passerà a un rappresentante civile. L’incarico di primo ministro del nuovo governo è stato invece affidato ad Abdalla Hamdok, stimato ex economista dell’Organizzazione internazionale del lavoro, della Banca africana di sviluppo e della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa.

Emblematici della ferrea volontà dei cittadini di influire sul futuro del proprio Paese, i recenti sviluppi costituiscono soltanto l’ultimo dei numerosi episodi di tensione che hanno contrassegnato la storia del Sudan. Un Paese che, indipendente dalla Corona britannica dal 1956, di fatto ha sempre vissuto in uno stato di guerra civile permanente. I 29.684 migranti partiti verso l’Italia negli ultimi sei anni ne rappresentano una delle conseguenze più evidenti.

Tre i principali scontri: le due guerre civili sudanesi (1955- 1972 e 1983-2005) e il conflitto del Darfur (in corso dal 2003). Le prime hanno visto il regime arabo-musulmano di Khartoum contrapporsi alle minoranze cristiano-animiste che vivono nel Sud del Paese, il terzo alle popolazioni nere del Darfur, la regione più occidentale della nazione. Comune denominatore: l’insofferenza delle periferie nei confronti del governo centrale, accusato di distribuire in maniera fortemente diseguale risorse e servizi proprio in base alle differenze etnico-culturali.

Tensioni tra Nord e Sud si registrarono già all’indomani dell’indipendenza, quando Khartoum disattese la promessa di instaurare un governo federale che avrebbe garantito ampia autonomia alle singole regioni. Ne scaturì un sanguinoso scontro tra l’esercito ufficiale e le milizie ribelli che si protrasse per sedici anni mietendo, si stima, circa 500mila vittime, di cui 400mila civili. Nell’ordine delle centinaia di migliaia di unità anche il numero dei profughi costretti ad abbandonare le proprie case.

Cifre, tuttavia, di gran lunga inferiori a quelle fatte registrare dal conflitto successivo, che prese il via nel 1983 e terminò solamente nel 2005. Nel corso dei ventidue anni di guerra, infatti, persero la vita più di due milioni di persone. Determinanti per porre fine alle ostilità furono anche, a partire dal 1995, gli interventi sul campo di Uganda, Eritrea ed Etiopia. Tutte schierate al fianco delle milizie indipendentiste, che poterono inoltre contare sull’appoggio esterno degli Stati Uniti. Così, il governo centrale si vide costretto a concedere al Sudan del Sud la possibilità di indire un referendum sulla secessione. Certamente un successo per i ribelli, ma ottenuto a prezzo di enormi sacrifici da parte di una popolazione già stremata dalla siccità e vittima della riduzione in schiavitù di donne e bambini. La storica consultazione si svolse a gennaio 2011 e l’esito, come previsto, fu plebiscitario. Nel pieno riconoscimento nazionale e internazionale, a optare per l’indipendenza fu il 98,81% dei votanti (affluenza complessiva del 96,47%): dopo decenni di tensione, lo Stato autonomo del Sud Sudan diventava realtà.

Fronte invece ancora aperto è quello del conflitto nel Darfur, sebbene dal 2010 sia in vigore una tregua finora piuttosto stabile. Entrambi di fede islamica, i due schieramenti in contrapposizione sono divisi però dall’appartenenza etnica: arabi da una parte, africani dall’altra. Un copione già noto. Gli scontri presero il via nel febbraio 2003 e videro gli insorti contrapporsi alle feroci milizie Janjawid, formate da pastori nomadi di etnia araba assoldati da Khartoum per ripristinare l’ordine. Fu l’inizio di un’altra catastrofe umanitaria. Fedeli alla loro reputazione, infatti, nel 2004 i Janjawid misero a ferro e fuoco centinaia di villaggi (tutti non arabi), costrinsero alla fuga gli abitanti e attuarono operazioni di bieca pulizia etnica ai danni della popolazione nera. In breve tempo, la situazione giunse a un tale livello di gravità da spingere il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite per il Sudan Mukesh Kapila a definire quanto stava accadendo in Darfur «la più grande crisi umanitaria al mondo» e il governo degli Stati Uniti a parlare esplicitamente di genocidio. Drammatico anche il quadro tracciato dalla FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), che indicò proprio nel Sudan occidentale la zona colpita dalla maggiore emergenza alimentare al mondo.

Di fronte a uno scenario del genere, nel 2007 l’ONU approvò una risoluzione che dispose l’invio sul campo di una forza di peacekeeping composta da oltre 20mila caschi blu da affiancare alle truppe dell’Unione Africana (organizzazione internazionale comprendente tutti gli Stati africani) già presenti sul territorio. Così, per reciproco sfinimento, nel 2010 venne raggiunta una tregua. Quella che, seppur con alcuni estemporanei episodi di violenza, vige ancora oggi. Il bilancio finale fu di 400mila morti, due milioni di sfollati e un numero imprecisato di persone ridotte alla più totale dipendenza dagli aiuti umanitari internazionali. Sono gli effetti di un conflitto conclusosi con un sostanziale nulla di fatto, ma di cui ancora si patiscono le conseguenze. Infatti, nonostante il PIL pro capite si attesti su valori superiori a quelli di molte altre nazioni africane (circa 4mila dollari annui per abitante), a tutt’oggi il Sudan non è un Paese in grado di reggersi autonomamente.

Sul piano economico, ingenti ricchezze derivano dall’estrazione del petrolio, spesso in concessione a compagnie cinesi o malesi. L’attività ha però fortemente risentito della secessione del 2011, dato che l’80% delle riserve di greggio si trovava proprio nella parte meridionale del Paese (rimane comunque contesa la regione di Abyei, tra le più ricche dell’ambitissimo oro nero). Ma non è da escludere che il sottosuolo, nel quale sono presenti anche ferro, cromite, oro e sale, possa riservare altre sorprese.

A occupare oltre il 60% dei sudanesi è l’attività agricola, generalmente praticata con tecniche arretrate per mere esigenze di sussistenza. Uniche colture industriali, quelle dell’arachide, della canna da zucchero e soprattutto del sesamo e del cotone. Favorite dalla fertilità dell’area compresa tra il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro, sono le stesse che alimentano le sparute aziende stabilitesi sul territorio. Buoni invece i dati relativi alle esportazioni di bestiame e gomma arabica, della quale il Sudan è il primo produttore mondiale.

Grande assente il settore dei servizi, specie quelli che dovrebbero essere garantiti dallo Stato. A titolo esemplificativo, si pensi che solamente un sudanese su quattro riesce a usufruire dei servizi sanitari, mentre uno su tre non ha nemmeno accesso all’acqua potabile. Al contrario, buone potenzialità si intravedono nel comparto turistico, legato in primis alla valorizzazione dell’ampio litorale che si affaccia sul Mar Rosso e dal quale è possibile raggiungere una tra le più suggestive barriere coralline del mondo.

Nel complesso si può dunque affermare che in Sudan le opportunità imprenditoriali siano quelle tipiche di un Paese da ricostruire da cima a fondo. Per questo, già a partire dalla fine degli anni Novanta, il governo iniziò a promulgare leggi pensate per incentivare l’afflusso di capitali esteri nel Paese. In base a tali norme, chiunque investa in settori definiti «strategici» può godere di importanti privilegi ed esenzioni, impensabili in Europa, oltre che di diverse zone franche.

Ecco perché, in attesa della definitiva stabilizzazione interna, per chi voglia fare impresa le porte sono e resteranno aperte. Tanto più dopo la revoca delle sanzioni economiche statunitensi avvenuta tra il 2017 e il 2018 «in riconoscimento delle costanti positive azioni per mantenere una cessazione delle ostilità in aree di conflitto e per aver migliorato l’accesso umanitario». Finora ad approfittarne è stata soprattutto la Cina, principale partner economico non solo del Sudan, ma anche di molti altri Stati africani.

Tratto dal libro
Africa, impresa possibile
di Alessandro Vinci