Il 27 marzo l’Unione Europea ha rilasciato il documento «The future of rare earths mining in Ukraine», ovvero «Il futuro delle attività mineraria per le terre rare ucraine». Le conclusioni sono agghiaccianti: «In the context of increasing geopolitical competition, the US and EU each have a large stake in the future of Ukrainian rare earth mining. The question remains which power stands to benefit the most. Much will depend on future investment strategies, regulatory frameworks, and Ukraine’s own alignment».
Quel che stride è il resto del documento. Il 10 aprile USA e Russia hanno discusso di tutto tranne che direttamente di Ucraina al consolato russo di Istanbul, mentre alla NATO a Bruxelles è stata organizzata contemporaneamente la forza di reassurement per l’Ucraina. Qual è allora il senso di leggere “the US and EU each have a large stake in the future of Ukrainian rare earth mining”? Nel documento dell’UE si nota che la mappa di fattura ucraina mostra depositi di terre rare – non meglio precisate – nel settore occupato attualmente dalla Russia.
Per quanto riguarda l’Ucraina, ci sono almeno una serie di punti che non tornano. Bisognerebbe capire:
- perché e come fu bloccata nel 2016 l’iniziativa «Inogate» formulata tra Tbilisi e Kiev nel 1996;
- in che stato è la BSEC che riuniva i Paesi del Mar Nero;
- passando alle vie di terra con trasporto multimodale (gomma, rotaia) in che condizioni versa dal 1993 il TRACECA (TRAnsport Corridor Europe-Caucasus-Asia).
Un altro fattore che occorre indagare è il ruolo dell’Ungheria. Di sicuro Budapest gioca al di sopra delle sue forze geoeconomiche e di fatto è ormai stabilmente posizionato in un’altra orbita rispetto a quella europea, ovvero quella di Mosca. Nel settembre 2018 l’Ungheria ha partecipato per la prima volta al vertice degli Stati turchi in Kirghizistan a Cholpon Ata («Monte di Venere»). È l’unico Paese in Europa ad averlo fatto per evidenti ragioni storiche e linguistiche, e in Europa è anche l’unico Paese che può permettersi di gestire l’intelligence culturale in questo modo. Del resto Alma Ata non è solo la «montagna di mele» ma è stata la capitale del Kazakistan fino al 1997 (ora lo è Astana). Un altro nome turco importante da conoscere perché collegato all’etimo mela-alma è Kizil Elma, il benemerito pomo rosso che è stato usato dagli estremisti di entrambe le parti, cattolici e musulmani, per indicare l’obiettivo dell’espansione islamista nella prima età moderna e oltre, sia a Vienna che a Roma.
Ma questo per l’Ungheria, oggi, è storia, mentre proietta la sua politica estera trattando direttamente con la Turchia. Al contrario, l’Italia le svende i suoi beni nazionali (Piaggio Aerospace). E al contrario dell’Ungheria, sotto Borrell (2019-2024) l’Europa non è riuscita a garantire alla Turchia un ruolo diverso da quello di guardiano/prigione per i migranti provenienti dal vicino Medio Oriente. E forse questo passaggio, con la correlativa politica di espansione dell’UE verso i Balcani (congelata ancota una volta?) puo’ indebolire ulteriormente il già fragile (se non destabilizzato) fianco orientale.
Mentre si pensa a come “portare dentro” l’Unione l’Ucraina, si lasciano da parte i Balcani, verso i quali ogni Paese UE pensa per se stesso: come potrebbe beneficiare del loro ingresso l’Austria? Cosa ne trarrebbe la Croazia? Sono dinamiche note magari a chi studia la materia all’università mentre in sede europea si fa finta di non vedere. Eppure la storia dovrebbe insegnare all’Europa che quando la situazione nei Balcani è pericolosamente in ebollizione, è il momento di intervenire in un modo o nell’altro. E, in secondo luogo, che forse non avevano poi torto gli Asburgo a sviluppare la propria logistica secondo l’asse nord-sud, più che ovest-est.
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