Riprendendo i princìpi del nazionalismo turco ereditati da Ataturk, e combinandoli con un forte richiamo alla centralità dell’Islam nella vita politica e a un accentuato interventismo militare, Erdogan ha coltivato per anni il sogno di una nuova epopea neo-ottomana. Questo sogno, però, ha finito con lo scontrarsi con la realtà, e dunque con l’impossibilità di giocare contemporaneamente un così alto numero di partite, dalla Siria alla Libia, dalle pressioni esercitate in acque cipriote per il controllo dei giacimenti di gas off shore nel Mediterraneo orientale al Nagorno-Karabakh.

Negli ultimi anni Ankara ha formato con il Qatar una sorta di nuova Mezzaluna islamica, fondata su comuni interessi economici e su comuni battaglie politiche e ideologiche, a cominciare da quella a sostegno della Fratellanza musulmana. Una relazione particolarmente complessa è anche quella che unisce la Turchia all’Iran, Paese che oggi rappresenta uno dei principali partner commerciali di Ankara. Un’intesa che espone Ankara a non pochi rischi, a cominciare dall’inasprimento dei rapporti con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

Il rapporto più complesso che Erdogan si trova a dover gestire resta però indubbiamente quello con il presidente russo Vladimir Putin. La relazione tra i due Paesi muove interessi economici enormi, in virtù dei quali ogni paradosso o incidente di percorso è finora sempre passato in secondo piano. Nonostante non siano mancati motivi di scontro nelle varie aree di crisi che le vedono impegnate, Mosca e Ankara puntellano dove e quando possono la loro amicizia, e ciò perché condividono un interesse ben più grande rispetto a quello di farsi la guerra: portare avanti la propria ascesa nell’area Mena approfittando delle «distrazioni» dell’Occidente. Nella crisi siriana, la Turchia è stata da subito coinvolta nel conflitto a causa della sua vicinanza geografica alla Siria. Nelle varie fasi del conflitto Ankara si è ora scontrata (per far cadere Assad) ora alleata (per ottenere il via libera alle operazioni contro i curdi siriani) con il Cremlino, restando contestualmente fedele agli Stati Uniti e alla Nato. Un gioco a tratti pericoloso che ha catapultato Erdogan nel turbinio degli eventi bellicosi che però, alla fine, non hanno travolto la sua strategia spregiudicata.

Avendo archiviato ormai da tempo il piano di adesione all’Ue, e consapevole del ruolo di contenimento esercitato dal suo Paese per trattenere le decine di migliaia di profughi in fuga dai conflitti in Siria e Iraq, Erdogan ha a più riprese minacciato di «aprire i cancelli» più di quanto non stesse già facendo permettendo così a un’enorme massa migratoria di sversarsi negli Stati orientali dell’Ue. In contemporanea da un lato ha a lungo tenuto sotto scacco Assad foraggiando milizie di ribelli siriani e gruppi jihadisti e, dall’altro, dietro la necessità di creare una buffer zone in risposta alla minaccia del terrorismo curdo, ha chiesto e ottenuto il benestare di Russia e Stati Uniti per invadere il nord est della Siria e impedire la formazione del Rojava, ovvero un’amministrazione autonoma curda.

Nella crisi libica la Turchia, entrata in gioco a partita in corso, è stata provvidenziale per il Governo di accordo nazionale di Tripoli. Inviando a Tripoli armi (contravvenendo così all’embargo imposto dalle Nazioni Unite) e miliziani trasferiti dalla Siria, Ankara ha ottenuto in cambio due strategici avamposti che gli consentono il controllo della parte occidentale del Paese: la base aerea di Al Watiya e la base navale di Misurata. Contestualmente la Turchia si è anche assunta l’impegno di portare avanti il progetto di creare un Ccmt (Cooperation centre and Military training) per addestrare le forze di difesa del Gna. Dietro questa cooperazione militare, si nasconde un piano ancora più ambizioso, ossia riesumare gli accordi sulla partecipazione di aziende turche nella costruzione di nuove infrastrutture in Libia, risalenti a prima della caduta del regime di Gheddafi. In queste manovre Erdogan si è creato ovviamente anche dei nemici. La Zona economica esclusiva condivisa con Tripoli è andata in contrasto con la Zee definita tra Grecia e Cipro in base alla convenzione delle Nazioni Unite sulla Regolamentazione delle zone marittime, e ha rimesso in discussione i progetti di esplorazione ed estrazione energetica da cui la Turchia era stata estromessa. Ankara vuole imporsi come interlocutore imprescindibile per tutto ciò che ha a che fare con l’estrazione e l’export di gas in questa fetta di Mediterraneo. Ma nel perseguimento di questo obiettivo deve scontrarsi con gli altri competitor dell’area, in primis Israele ed Egitto, ma anche Italia e Francia che più volte negli ultimi anni hanno dovuto assistere all’avanzamento di navi della Marina turca in acque cipriote loro affidate per attività esplorative in cerca di nuovi giacimenti.

A dispetto delle sue reali capacità economiche e a fronte della necessità di dover coprire circa il 90% del proprio fabbisogno energetico attraverso approvvigionamenti all’estero, la Turchia persevera nel mettere in campo uno sforzo economico-militare enorme pur di garantirsi l’agognata ascesa nell’area Mena. Eppure gli obiettivi che sono alla base di questa ambizione, sembrano molto più distanti rispetto a quando nel 2002 Erdogan ha preso il potere. L’obiettivo di ergere la Turchia a unico e imprescindibile ponte tra il mondo musulmano e l’Occidente è di fatto sfumato, specie alla luce dei ripetuti attacchi all’Europa sul tema dei migranti. Così come appare difficile da centrare l’altro obiettivo, ovvero far entrare la Turchia a tutti gli effetti nel mercato del gas che ruota attorno al Mediterraneo e alle sue immense risorse. Ankara è fuori dall’East Mediterranean Gas Forum (Emgf), i cui firmatari – Cipro, Egitto, Grecia, Italia, Israele e Autorità nazionale palestinese – si sono guardati bene dal coinvolgerla. Così come non accetta di esser stata estromessa dal tracciato del gasdotto Eastemed, lungo circa 1.900 chilometri e che dovrebbe collegare il Bacino Levantino – nelle acque tra Cipro, Israele ed Egitto – con la Grecia. Le ripetute azioni intraprese dalla Marina turca in acque territoriali comprese nelle Zone economiche esclusive di Cipro e Grecia, piuttosto che far prevalere la muscolarità dell’approccio turco, hanno provocato forti tensioni con l’Ue, che come era prevedibile è intervenuta a sostegno di due suoi Stati membri minacciando pesanti sanzioni economiche nei confronti di Ankara. Segno che il gioco condotto da Erdogan, oltre che ormai abbastanza prevedibile, si sta rivelando anche inefficace e controproducente. Se il presidente turco non si deciderà a cambiare registro, i confini attorno al suo Paese saranno popolati sempre più da nemici piuttosto che da alleati con cui fare affari e su cui poter fare affidamento.

Tratto dal libro
La Fiera dell’Est
di Nicola Lippolis