Israele: Netanyahu punta sul vaccino

Israele attualmente risulta la nazione leader nella campagna di vaccinazione, iniziata il 19 gennaio tramite un accordo con Pfizer/BioNTech e favorita da un sistema sanitario gratuito e digitalizzato.

Ad oggi, si contano circa 3,5 milioni di persone tra quelle già completamente vaccinate o in attesa del richiamo. Alla luce di ciò, gli occhi di tutto il mondo sono puntati sul paese, ormai il più maggiore caso di studio sull’efficacia dei vaccini.

Yuri Eldestein, ministro israeliano della Sanità, aveva riferito a Bloomberg di auspicare una copertura vaccinale dell’80% entro la fine di maggio. L’amministrazione delegato della Pfizer Albert Bourla aveva affermato che Israele fungerà dunque da modello e che i risultati a ottenuti saranno indispensabili alla creazione di una strategia definitiva per porre fine all’epidemia a livello globale. Nonostante ciò, si è verificato un calo di richieste immediatamente dopo che la fascia più anziana della popolazione ha concluso i richiami.

Gli ultimi dati dimostrano, in ogni caso, che nel periodo compreso tra la metà di gennaio e il 6 febbraio, in Israele c’è stata una diminuzione del 53% dei nuovi casi, un calo del 39% dei ricoveri e il 31% in meno di casi di malattia grave.

Our World Data colloca lo stato ebraico al primo posto con il 72,58% di vaccinazioni effettuate sulla popolazione totale, al secondo posto gli Emirati Arabi Uniti con il 50,61% e al terzo il Regno Unito, al 22,23%. Pfizer ha dichiarato, comunque, che rimane difficile prevedere il momento preciso in cui si potrebbe arrivare all’immunità di gregge, a causa delle molte variabili del virus. Israele è di nuovo in lockdown dal 27 dicembre scorso, dopo che si era verificato un innalzamento di casi di Covid-19, le scuole sono chiuse, così come tutte le attività considerate non indispensabili.

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A inizio gennaio, il paese aveva firmato un ulteriore accordo con Moderna, il cui vaccino può essere conservato a -20° anziché a -70°. In un normale frigorifero, può sopravvivere fino a 30 giorni, ma ha le potenzialità per essere conservato anche per sei mesi. Gran parte dell’unico lotto di 100.000 dosi consegnato da Moderna si trova tutt’ora in cella frigorifera perché, riferisce Eli Gilad, alto funzionario del ministero della Salute, non varrebbe la pena mettere già in circolazione un vaccino di tipo diverso quando il paese ha a disposizione già milioni di dosi di Pfizer.

Alla luce di questo numero di dosi in esubero, si pone la questione della copertura vaccinale dei palestinesi. Ad oggi solo duemila dosi di Moderna sono state trasferite all’Autorità Palestinese con sede in Cisgiordania, destinate agli operatori sanitari, e ne sono previste altre tremila. Ma Israele sta respingendo le richieste di ampliare la campagna di vaccinazione per la restante popolazione palestinese.

La gestione dell’assistenza sanitaria di coloro che vivono sotto occupazione risulta, tecnicamente, essere responsabilità dello stato occupante. Il rapporto pubblicato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani afferma che Israele, ai sensi dell’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra, al massimo dei mezzi a sua disposizione, è tenuta ad occuparsi dei servizi sanitari nei territori occupati e quindi ad estendere la campagna di vaccinazione a tutti i palestinesi residenti a Gaza e in Cisgiordania. Attualmente, invece, le dosi sono state assicurate soltanto ai “residenti permanenti” di Gerusalemme Est e ai coloni israeliani che vivono negli insediamenti illegali in Cisgiordania. I 5 milioni di palestinesi che si trovano nella West Bank e nella Striscia di Gaza rimangono tutt’ora esclusi.

Sebbene l’accordo israelo-palestinese interno agli accordi di Oslo del 1995 preveda che sia l’Autorità palestinese a detenere la responsabilità dell’assistenza sanitaria nei territori palestinesi, Amnesty International sottolinea come nell’odierna situazione gli accordi debbano necessariamente essere reinterpretati e applicati coerentemente con il diritto internazionale: la responsabilità ultima riguardo i servizi sanitari rimane all’occupante finché l’occupazione non avrà avuto fine. Il 22 dicembre, 10 organizzazioni per i diritti umani avevano già rilasciato una dichiarazione che chiede esplicitamente a Israele di includere i palestinesi sotto occupazione nel piano pandemico.

Per Netanyahu, inizialmente criticato per la gestione della pandemia, la questione dell’emergenza sanitaria assume naturalmente una dimensione politica e il suo successo può essere sfruttato come cavallo di battaglia in campagna elettorale. Il 23 marzo ci saranno le elezioni anticipate, le quarte in soli due anni. Secondo i sondaggi di Haaretz, il Likud otterrebbe probabilmente 30 seggi su 120 alla Knesset,  a cui vanno sommati gli 8 previsti per i partiti ultraortodossi Shas, i 7 di United Torah Judaism e gli 11 del partito di destra Yamina di Bennet. Così si arriverebbe soltanto a 56 seggi, cinque in meno della maggioranza assoluta che servirebbe per formare una coalizione.

Sullo sfondo ci sono i processi al Primo Ministro, accusato in tre distinti procedimenti. Il procuratore generale Avichai Mandelblit ha incriminato Netanyahu per corruzione e conflitto d’interessi nei casi nominati 1000, 2000 e 4000.

Nel caso 4000 sono coinvolti anche Shaul Elovitch, principale azionista dell’enorme società di comunicazione Bezeq e del sito Walla, e la moglie, accusati di corruzione ed ostruzione alla giustizia a causa di accordi di favoreggiamento nei confronti del partito di Bibi nelle loro piattaforme di comunicazione. I casi 1000 e 2000 si riferiscono al periodo in cui il Primo Ministro ricopriva anche la duplice carica di Ministro delle comunicazioni. Il caso 2000 riguarda gli incontri avvenuti tra Netanyahu e Arnon Mozes, proprietario ed editore dell’influente quotidiano Yedioth Ahronoth, in cui si sostiene che, oltre ad esserci stata una tangente, si sia discusso anche un disegno di legge che minimizzasse gli effetti dannosi della circolazione del quotidiano gratuito Israel Hayom. Il caso 1000 invece è riferito ai rapporti tra Netanyahu e gli uomini d’affari Arnon Milchan e James Packer, dai quali il premier avrebbe ricevuto una fornitura regolare di beni di lusso per un totale di circa 690.000 shekel.

Lunedì 8 febbraio Netanyahu si è formalmente dichiarato non colpevole per quanto riguarda ogni accusa nell’ultima comparizione al tribunale distrettuale di Gerusalemme, confermando la posizione che il suo team di difesa aveva presentato a gennaio. L’avvocato Boaz Ben Zur ha inoltre chiesto che la fase probatoria venga rinviata di qualche mese, per far sì che la giustizia non interferisca con le elezioni. Anche il presidente della Knesset, membro del Likud, ha sostenuto che se si procedesse ora sarebbe una «palese interferenza».

Ancora una volta le elezioni saranno una sorta di referendum su Netanyahu, il premier più longevo nella storia del paese.

Non è detto che il futuro governo mantenga una maggioranza di destra, si vedrà se il Partito Laburista, che prima dell’arrivo del Likud era lo storico primo partito, potrà sopravvivere o meno. Dopo l’elezione di Merav Michaeli come leader il 24 gennaio di quest’anno, Partito Laburista è tornato sopra alla soglia di sbarramento e la personalità della nuova leader si inizia a configurare come un’alternativa credibile.

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