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Era una promessa del calcio. Ma il destino e un padre autoritario hanno voluto che ai campi da gioco preferisse l’arena politica e lo scacchiere internazionale, con tutto quello che ne è conseguito per la trasformazione della Turchia e la destabilizzazione del Mediterraneo. Quel che è certo è che, in poco più di quindici anni, il coriaceo presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha cambiato i connotati di un Paese amico dell’Occidente, trasformandolo profondamente al suo interno, con il passaggio da un laicismo impresso a forza dall’eredità di Mustafa Kemal Atatürk, a una nuova identità composta da nazionalismo, islamismo e nostalgia del periodo ottomano, facendolo diventare una vera e propria «mina impazzita» nelle relazioni internazionali, in grado di incrinare equilibri che si pensavano consolidati.

Quella di Erdogan è la storia di un uomo che ha scalato tutti i gradi dell’azione politica, entrando in ambienti del potere un tempo preclusi a quelli come lui, ossia a quella Turchia espressione della società rurale, conservatrice e localizzabile, negli anni Settanta e Ottanta, negli immensi altipiani dell’Anatolia o nei quartieri poveri delle grandi città. In questo senso, l’ascesa al potere di Erdogan coincide con il riscatto di una parte di elettorato, fino a quel momento relegata ai margini della vita civile e politica del Paese, gestita – seppur con interventi correttivi da parte delle forze armate e della magistratura – da un’élite governativa e imprenditoriale riconducibile all’establishment laico.

Le origini del leader

Il giovane Recep Tayyip nasce a Rize, sul Mar Nero, il 26 febbraio 1954. La sua famiglia ha origini georgiane, come molte altre in quella zona di confine. Il papà, Ahmet, uomo autoritario ed estremamente religioso, fa parte della guardia costiera. La mamma, la dolce Tenzile a cui Recep è molto legato, manda avanti la casa e, oltre al primogenito, cresce altri due figli, Mustafa e Vesile. La famiglia non naviga nell’oro e le difficoltà si fanno sentire soprattutto quando, nei primi anni Sessanta, gli Erdogan si trasferiscono a Istanbul, nel quartiere di Kasımpasa, su quel Corno d’Oro che nel XIX secolo fu sede della marina ottomana. Dei fasti del passato, però, all’epoca rimaneva solo qualche palazzo decadente, che il futuro presidente farà restaurare anni dopo. Per il resto, si tratta di una zona fra le più povere della città, vicina a Beyoglu, il quartiere delle rappresentanze diplomatiche e della vita all’occidentale.

Vivere a Kasımpașa, invece, è duro: i soldi sono pochi e predomina la legge della strada, fatta di supremazia del più forte e di rivalità fra bande. Un ambiente nel quale Recep Tayyip dimostra di trovarsi a suo agio. Proprio grazie a queste organizzazioni di strada, infatti, trova il suo primo impiego dopo la scuola: venditore di limonata e di simit, il pane ricoperto di semi di sesamo che ancora oggi si vede a ogni angolo delle strade della Turchia. Il ragazzo lo fa per aiutare la famiglia, ma anche per ritagliarsi il ruolo di piccolo boss nel quartiere.

Del resto, quel giovane ha una spiccata attitudine al comando. Se ne accorgono anche sul campo di calcio del Kasımpaa, la squadra del rione, dove Recep Tayyip gioca nel ruolo di attaccante e che rappresenta l’unica alternativa alla scuola e ai suoi traffici nel quartiere. Il giovane ha davanti a sé un avvenire promettente in questo sport, ma il padre Ahmet è categorico: il suo primogenito deve studiare e trovarsi un lavoro. Il pallone potrà rimanere sempre e solo un hobby.

Sono gli anni Settanta, l’epoca del secondo colpo di Stato e della guerra nelle città fra i gruppi di sinistra extraparlamentare e quelli ultranazionalisti. Gli ambienti più islamici restano defilati e non vengono mai coinvolti in episodi di violenza. Sanno di essere i nemici numero uno per molti e, proprio per questo, continuano a tessere la loro tela in modo silenzioso, ma invasivo. Da una parte c’è Necmettin Erbakan, ingegnere proveniente da una ricca famiglia sul Mar Nero, che è il primo leader ufficiale e incontrastato della destra islamica turca. Viene dalla Naqshbandi, una delle congregazioni mistiche sufi più diffuse nell’Islam sunnita, che ha penetrato capillarmente la Turchia anche grazie alla predicazione dello Sheikh Mehmed Zahid Kotku, secondo il quale l’Islam doveva necessariamente entrare nella vita politica del Paese. Una delle fonti di maggiore ispirazione per i suoi sermoni, sono le opere di Sayyid Qutb, membro di punta dei Fratelli Musulmani egiziani.

Dall’altra parte, molto più defilato e discreto, c’è il grande rivale di Erbakan, Fethullah Gulen, che proviene dalla Nurcu (un’altra confraternita, fondata da Said Nursi) e il quale fonda non un partito ma un suo movimento, chiamato Hizmet. Gülen rappresenta una diversa espressione di Islam politico, contrapposta a quella di Erbakan sia per confraternita di provenienza, sia per modalità operative, concezione di gestione del potere e ancora per influenza delle comunità islamiche all’estero. Una realtà non meno pericolosa per la tenuta della laicità della nazione, e che si rivelerà pronta a fare un patto con Erdogan per insidiare dalle fondamenta il Paese fondato da Mustafa Kemal Atatürk.

All’inizio degli anni Ottanta, però, Recep Tayyip Erdogan è ancora un giovane di belle speranze. La sua biografia ufficiale lo vuole laureato nel 1981 in business administration alla Marmara University. La veridicità di questo titolo è stata messa in dubbio da molti. Di certo, però, il futuro presidente lavora nel settore privato e, contemporaneamente, inizia la sua militanza politica nel Milli Selamet Partisi, il Partito della Salvezza Nazionale fondato da Erbakan nel 1972 e poi chiuso nel 1981 in seguito al golpe del 1980 (il terzo nella storia del Paese). Durante uno dei comizi di questo partito, conosce e s’innamora della giovane Emine Gulbaran: ha due anni in meno di lui e la sua famiglia vive a Uskudar, l’antica Scutari, a quel tempo un altro quartiere depresso e conservatore di Istanbul. I suoi genitori sono originari di Siirt, nel sud-est del Paese, quindi nelle sue vene scorre anche sangue arabo. I due si sposano nel 1978. Sarà un matrimonio fortunato, allietato dall’arrivo di quattro figli: prima due maschi, Burak Ahmet e Bilal Necmettin, nati nel 1979 e nel 1981; e poi due femmine, Esra e Sumeyye, nate nel 1983 e nel 1985. La coppia, con il tempo, oltre a un’unione coniugale dà vita anche a un vero e proprio sodalizio politico. Emine, pur rimanendo nell’ombra, è infatti la sua «rete di sicurezza», spin doctor e consigliera, rispettata – e, a tratti, anche temuta – tanto dai ministri quanto dai dirigenti del futuro partito Akp.

di Marta Ottaviani

Tratto dal libro
Leaders. I volti del potere mondiale
Paesi Edizioni