Il 30 aprile 2018 due attacchi suicidi rivendicati dall’Isis hanno ucciso almeno 31 persone nel centro di Kabul. Nove di queste erano giornalisti accorsi a documentare l’attentato terroristico avvenuto poco prima nello stesso posto. Tra i reporter che hanno perso la vita c’è anche Shah Marai, fotografo dell’ Agence France-Presse che, prima da freelence poi da corrispondente, ha mostrato al mondo gli orrori della guerra in Afghanistan. In tutto, 18mila scatti che hanno mostrato la brutalità dei corpi martoriati dalle bombe, la piaga del lavoro minorile, ma che hanno anche rivelato il volto della prima donna pilota afghana, Niloofar Rahmani, quello nascosto dal caschetto di una ragazzina vestita di rosa che si diverte con lo skateboard nonostante la guerra e la struggente bellezza dei paesaggi afghani. L’eredità di Shah Marai è raccolta nel libro When Hope Is Gone, in cui il fotoreporter racconta del suo lavoro e di alcuni momenti fondamentali della storia del suo Paese.

Il giorno successivo al duplice attentato il Pentagono ha diffuso un rapporto che descrive nel dettaglio un Paese in enormi difficoltà. Gli attacchi suicidi, l’economia stagnante, la produzione di narcotici, niente nella relazione trimestrale di John Sopko, l’ispettore speciale per la ricostruzione in Afghanistan (SIGAR), restituisce l’idea di ottimismo ostentata dal Dipartimento della Difesa statunitense. Le statistiche e i numeri riportati nell’indagine, datata 30 aprile e resa pubblica il 1 maggio, smentiscono il segretario James Mattis che nella sua visita a Kabul lo scorso marzo ha affermato che la vittoria in Afghanistan è ancora possibile e che non sarà conseguita con l’uso della forza militare. Dalle parole di Mattis si intuiva una certa sicurezza nel facilitare il processo di riconciliazione tra i Talebani e il governo afghano. Il segretario ha definito la vittoria in Afghanistan un accordo politico tra il Talebani e il governo, aggiungendo che l’esercito afghano è capace di tenere al sicuro il Paese con le sue sole forze. Su questo punto Mattis ha anche detto che l’Afghanistan non sarà più “un paradiso per pianificare attacchi terroristici su scala internazionale”, alludendo chiaramente agli attentati dell’11 settembre 2001 firmati da al Qaeda. Il piano di Mattis punta a indebolire i Talebani e a convincerli a non riuscire a vincere sul terreno, guidandoli così verso la riconciliazione forzata con il governo. Fonti dell’intelligence statunitense parlano, al contrario, di una situazione di stallo e predicono l’avvenire di una nuova stagione violenze, di norma più frequenti con l’inizio della primavera.

La visita di marzo nella capitale afghana è stata la seconda per Mattis da quando il presidente Trump, venendo meno a una promessa elettorale, ha annunciato un maggiore impegno sul campo da parte degli USA per soluzione del conflitto in Afghanistan, entrato nel 17esimo anno. Il nuovo orientamento del Capo della Casa Bianca ha incluso nelle scorse settimane l’invio di altri 800 soldati più diverse centinaia di unità di supporto. Trump, inoltre, ha deciso di dispiegare in Afghanistan gli A-10 e altri aerei da guerra, spostandoli dalla Siria e dall’Iraq dove erano utilizzati nella guerra all’Isis. Queste disposizioni hanno portato in Afghanistan altri 3,500 soldati a stelle e strisce.

Da quando, alla fine del 2014, le truppe internazionali da combattimento della Missione Nato (Isaf), hanno ultimato il ritiro dal Paese, il quadro non sembra affatto migliorato e anzi mostra tinte molto più fosche di quanto Mattis e il Dipartimento della Difesa siano disposti ad ammettere. L’ultimo rapporto del Pentagono riferisce che la guerra in Afghanistan sarebbe tutt’altro che vinta:

L’economia afghana è ferma. Il Pil del Paese non cresce più dal 2012. Neanche 126 miliardi di aiuti e investimenti nello sviluppo sborsati dagli Stati Uniti sono riusciti a sollevare le sorti di un Paese arrivato al 183esimo posto nella classifica mondiale dei luoghi migliori dove “fare affari”. I pochi giganti economici importati dagli americani dipendono costantemente dal sostegno esterno e crollerebbero se venisse loro meno questo aiuto.

Il numero di bombe che sono state sganciate contro l’Afghanistan dalla coalizione occidentale nella prima parte del 2018 è il più alto mai registrato dall’anno 2013. Durante lo scorso inverno, invece, è calato il numero di attacchi diretti condotti dai Talebani. Nonostante questo dato incoraggiante, c’è da aggiungere che il Paese resta fortemente instabile e insicuro. Ne sono la prova gli innumerevoli incidenti avvenuti nel 2018, una quantità tale da superare tutti quelli mai registrati in precedenza. Le vittime di mine e ordigni inesplosi sono, ad esempio, circa 170 al mese.

Gli attacchi suicidi, come quello di lunedì 30 aprile, hanno avuto un incremento superiore al 50% nel corso del 2017. Nello stesso arco di tempo gli episodi di violenza settaria sono triplicati.

Dal 2012 gli Stati Uniti hanno speso 8,78 miliardi di dollari per la lotta ai narcotici. Tuttavia, la produzione di oppio non accenna a diminuire. Anzi, solo nel 2017 è cresciuta del 63%.

Solo il 65% della popolazione afghana vive sottoposta al controllo del governo, la cui capacità di amministrare il territorio dipende da quanto gli Stati Uniti sono disposti a spendere per le forze di sicurezza locali. Il governo di Kabul controlla a stento tre quarti del Paese, mentre il resto dell’Afghanistan, in particolare le zone montagnose, è in mano ai Talebani, ad altri gruppi ribelli o ai terroristi dell’Isis.

Fino a questo momento, sono state 20.318 le vittime tra il personale del Dipartimento della Difesa USA stanziato in Afghanistan. Nel 2017 i morti sono stati di più rispetto ai due anni precedenti. La stima è che ci siano almeno 14mila militari americani impiegati in Afghanistan, un numero che dovrebbe aumentare, stando alle previsioni.

Di contro, il numero di persone arruolate nell’esercito e nelle forze di polizia locali è in calo. Una riduzione sensibile che riguarda soprattutto le donne. Sono in aumento anche gli attacchi tra i membri delle forze armate.

La corruzione, diffusa e ben radicata, resta l’ostacolo maggiore al progresso e allo sviluppo economico. Secondo il report, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti attribuisce questa situazione alla mancanza di volontà politica del governo afghano.