I Talebani hanno spazzato via un intero plotone afgano, uccidendo 43 soldati, in un attacco suicida nella provincia meridionale di Kandahar. Veicoli blindati farciti di esplosivo hanno raggiunto la base dell’esercito nazionale afghano nel quartiere Maiwand di Kandahar, dove erano di stanza 60 soldati. All’attacco è seguito un assalto alla struttura, durato alcune ore. Solo un attacco aereo americano ha messo fine alla battaglia, che è costata la vita anche a nove Talebani.
I loro ripetuti attacchi contro compound militari e di polizia afghani sono in pericoloso aumento (70 morti e oltre 150 feriti solo questa settimana), nonostante l’avvio di nuovi colloqui di pace promossi dai funzionari di Washington, che questa settimana in Oman hanno incontrato delegazioni provenienti dall’Afghanistan, dal Pakistan e dalla Cina, proprio per valutare la possibilità di riavviare negoziati di pace con gli insorti.
Ma la morte lo scorso anno del leader talebano Akhtar Mohammad Mansour, colpito da un drone USA nella provincia pakistana sud-occidentale del Baluchistan, ha vanificato la speranza di quanti credevano di poter giungere a una pace concordata tra le parti. Il capo della Casa Bianca allora era ancora Barack Obama e considerò il blitz avvenuto in territorio pakistano «un traguardo importante», in linea con l’exit strategy degli Stati Uniti dall’Afghanistan che il presidente stava perseguendo da anni.
L’uccisione lo scorso anno del leader talebano Akhtar Mohammad Mansour ha vanificato la speranza di quanti credevano di poter giungere a un accordo di pace
Tuttavia, la nuova Amministrazione Trump ha ribaltato decisamente questa decisione e lasciato carta bianca al Pentagono per gestire l’interminabile guerra afghana con più uomini e più mezzi. Nessun ritiro, dunque. Ma neanche alcuna vittoria possibile all’orizzonte. La verità, infatti, è che dopo sedici anni di guerra, costata finora agli americani 2.300 morti, la situazione vede ancora gli islamisti radicali bene insediati nelle loro province nonostante un impegno militare internazionale che ha toccato la sua punta massima nel 2014, quando solo il contingente americano era arrivato a schierare sul terreno 100mila soldati.
Attualmente in Afghanistan sono presenti circa 13.000 effettivi del contingente internazionale nell’ambito della missione NATO Resolute Support, iniziata il primo gennaio del 2015 in sostituzione della missione ISAF (International Security Assistance Force). Di questi, 8.400 appartengono alle forze armate statunitensi e poco più di mille all’esercito italiano.
La lunga guerra in Afghanistan
La guerra in Afghanistan venne scatenata dall’ex presidente americano George W. Bush alla fine del 2001 dopo gli attentati dell’11 settembre, per imprimere una svolta al lotta al terrorismo internazionale. Gli USA decisero di aprire un nuovo fronte proprio in Afghanistan poiché in possesso delle prove della presenza nel Paese del leader di Al Qaeda, Osama Bin Laden, rifugiato nelle grotte di Tora Bora.
In poco tempo, nei primi mesi del 2002, l’infrastruttura di Al Qaeda fu smantellata e il governo dei talebani abbattuto. Nella sua prima fase, quindi, l’intervento militare americano ottenne un successo. Ma Bush e i suoi consiglieri non si accontentarono, pretendendo di “esportare la democrazia” in un Paese islamico popolato di pastori e di coltivatori d’oppio.
Nel 2001 dopo gli attentati dell’11 settembregli USA decisero di aprire un nuovo fronte in Afghanistan poiché in possesso delle prove della presenza nel Paese del leader di Al Qaeda, Osama Bin Laden, rifugiato nelle grotte di Tora Bora
Riconquistata Kabul nei primi mesi del 2002, gli americani insediarono nella capitale afghana il governo di Hamid Karzai. La scelta si rivelò sbagliata. Negli anni successivi Karzai si distinse infatti più per i casi di corruzione che videro coinvolti esponenti della sua famiglia e membri del suo governo, che per la capacità militare del suo esercito, incapace in oltre un decennio di riprendere il controllo del Paese al di là della capitale e delle aree circostanti.
A sedici anni dall’inizio del conflitto il Pentagono, rifiutandosi di prendere atto del fatto che i talebani rappresentano una minaccia forse ancora più difficile da eliminare rispetto al passato, ha previsto incomprensibilmente un ulteriore «piccolo sforzo» in termini di mezzi e uomini per raggiungere risultati che, tuttavia, non sono stati conseguiti nemmeno quando gli americani schieravano fino a 100mila soldati in Afghanistan.
A sedici anni dall’inizio del conflitto il Pentagono, rifiutandosi di prendere atto del fatto che i talebani rappresentano una minaccia forse ancora più difficile da eliminare rispetto al passato, ha previsto incomprensibilmente un ulteriore «piccolo sforzo» in termini di mezzi e uomini
La proposta di un’ulteriore escalation ricorda quelle che negli anni Sessanta e Settanta hanno portato al pantano vietnamita e alla sconfitta degli Stati Uniti al costo della vita di 58mila soldati, caduti inutilmente in un conflitto che non poteva essere vinto con mezzi militari convenzionali. C’è da sperare che prima di ordinare un nuovo intervento massiccio, potenzialmente sterile e costoso, Trump e gli alleati della NATO riflettano con cura sull’esperienza del Vietnam e optino su una strategia dei piccoli passi (seppur insidiosa), evitando di sprecare ancora soldi e vedere morire altre centinaia di soldati.
Ma, data la situazione attuale, quella speranza appare vana, così come i colloqui in Oman.
Alfredo Mantici
Ex capo del Dipartimento Analisi del Sisde, Direttore Analisi dI Babilon magazine e detective nel noto reality "Celebrity Hunted"
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