Da più di due secoli, gli afghani difendono puntigliosamente il loro paese dalla presenza straniera. Da 1840 al 1920 si scontrarono con l’Inghilterra, che riteneva di poter facilmente estendere il proprio controllo del subcontinente indiano al di là dei confini nordoccidentali del Khyber Pass. Gli inglesi furono duramente sconfitti da una guerriglia sanguinosa contro la quale le loro truppe regolari dimostrarono di essere ben poco preparate. Analoga sanguinosa esperienza è toccata ai russi, che nel 1979 tentarono di imporre a Kabul un governo comunista per poi essere costretti ad abbandonare l’Afghanistan dopo dieci anni e dopo aver perso tra le sue montagne e vallate decine di migliaia di soldati, senza avere minimamente scalfito la struttura tribale del Paese.

Dopo l’umiliante sconfitta dei sovietici, dal 1989 l’Afghanistan è stato retto dal governo islamista dei Talebani sotto il comando del Mullah Omar per oltre un decennio: fino al 13 ottobre del 2001, quando Kabul cadde sotto i colpi dell’operazione Enduring Freedom, decisa dal presidente americano George W. Bush in risposta agli attentati dell’11 settembre organizzati da Osama Bin Laden proprio dalle sua base afghana. Dopo la conquista dell’ultima base talebana di Kandahar nel dicembre 2001, i giochi in Afghanistan sembravano fatti e conclusi.

Tuttavia, la presenza militare straniera non conseguì mai l’obiettivo di «conquistare il cuore e le menti» degli afghani e i Talebani ebbero gioco facile negli anni successivi nel montare operazioni di guerriglia contro le truppe straniere e contro quelle del nuovo governo di Amid Kharzai, insediato dagli “invasori” occidentali nel 2004. Enduring Freedom, nonostante i suoi costi in termini di vite umane, può essere considerata un successo sotto il profilo militare.

La presenza militare straniera non conseguì mai l’obiettivo di «conquistare il cuore e le menti» degli afghani e i Talebani ebbero gioco facile negli anni successivi nel montare operazioni di guerriglia

I guerriglieri di Al Qaeda, infatti, sotto la pressione continua dei bombardamenti americani, abbandonarono progressivamente il paese, rifugiandosi in Pakistan o recandosi in Iraq per combattere il Jihad dopo l’invasione americana del 2003. In Pakistan si rifugiò anche il loro capo, Osama Bin Laden, dove venne raggiunto e ucciso dagli americani nella notte tra l’1 e il 2 maggio 2011, ad Abbottabad.

Dal punto di vista della lotta al terrorismo internazionale Enduring Freedom può essere considerata un successo essendo riuscita nell’obiettivo di distruggere il centro di comando operativo di Al Qaeda e di eliminare il suo capo, insieme a molti dei vertici militari dell’organizzazione, saldando quindi il conto con gli attentati dell11 settembre.

Altrettanto non può dirsi della missione ISAF, lanciata dalla NATO nel 2006 per assicurare la pacificazione del paese e la sopravvivenza del governo di Kabul. ISAF ha visto il dispiegamento sul terreno di circa 100mila soldati americani affiancati da contingenti di 39 paesi (anche la piccola Albania ha inviato una decina di militari), che tuttavia non sono stati in grado né di pacificare l’Afghanistan né di sconfiggere i talebani e le altre formazioni della guerriglia islamista o tribale.

Preso atto delle difficoltà insormontabili sul piano politico e militare, la missione ISAF è stata chiusa nel 2015 con il ritiro di gran parte delle truppe del contingente NATO, per essere rimpiazzata dalla missione Resolute Support, mirante ad assicurare adeguati livelli di addestramento alle forze regolari afghane, attraverso l’impegno di un piccolo contingente occidentale. Nell’ambito di Resolute Support, il contingente occidentale non dovrebbe più essere impiegato in operazioni offensive, ma solo ad addestrare i soldati afghani e ad attivarsi solo per autodifesa.

Se questa è la missione attuale del contingente NATO in Afghanistan, diventa incomprensibile la richiesta dei vertici del Pentagono di aumentarlo di poche migliaia di unità: troppo poche per riprendere la guerra contro i Talebani, troppe per i compiti di addestramento di un corpo militare che dopo così tanti anni di guerra dovrebbe comunque essere già esperto e addestrato (i Talebani, dal canto loro, con l’ultimo assalto alla caserma di Mazar-i Sahrif, hanno dimostrato che da soli sono riusciti ad addestrarsi in modo adeguato).

La richiesta dei vertici militari americani è pertanto ambigua e abbastanza sconcertante, e potrebbe in realtà sottendere l’intenzione di far compiere al presidente Trump un primo passo verso un’ulteriore escalation in Asia Centrale che, con il sostegno dell’Alleanza Atlantica, tenti di trasformare gli insuccessi degli ultimi sedici anni in una futura – improbabile, vista l’esperienza – vittoria.

Incomprensibile la richiesta dei vertici del Pentagono di aumentare il contingente USA in Afghanistan di poche migliaia di unità: troppo poche per riprendere la guerra contro i Talebani, troppe per i compiti di addestramento

All’aeroporto di Kabul, un enorme cartello saluta i visitatori con la scritta “Benvenuti in Afghanistan, il paese dei coraggiosi”. E infatti, da due secoli e mezzo gli afghani dimostrano costantemente di essere coriacei e sicuramente coraggiosi. Ora che l’Afghanistan, dopo la sconfitta di Al Qaeda e la morte di Bin Laden, non può essere più considerato un paese-base del terrorismo internazionale (nonostante la propaganda, l’ISIS resta un fenomeno mediorientale e non ha un vero centro di gravità nell’Asia Centrale), forse è venuto il momento di lasciare questo paese al suo destino e alle sue tribù, senza sprecare ulteriori soldi e vite umane in progetti avventurosi che le recenti esperienze dirette hanno dimostrato essere costosi quanto improduttivi.

Se Donald Trump, convinto dai suoi consiglieri militari, ha deciso di riaprire il dossier Afghanistan, ebbene lo faccia pure. Ma da solo, senza gli uomini e i soldi dei suoi alleati NATO, che hanno già pagato un prezzo molto alto per un’avventura militare che si è dimostrata sterile e improduttiva sia sul piano militare che sotto il profilo politico.