Erano dodici anni che il Fondo Monetario Internazionale non varcava la frontiera argentina, ma con il discorso in diretta tv dello scorso 8 maggio del presidente Mauricio Macri tutto è cambiato. L’Argentina si è rivolta al FMI aprendo una trattativa per avere la disponibilità di una cifra minima di 30 miliardi di dollari. Un salvacondotto per un Paese che se da un lato dimostra indicatori statistici positivi (il PIL è in crescita ad esempio), dall’altro è sull’orlo di una recessione reale a causa di un deprezzamento del peso rispetto al dollaro di oltre il 30%, non controbilanciato dal costo della vita (alto) e aggravato da una bilancia commerciale in disavanzo. Dura la risposta degli argentini a quest’impopolare scelta di Macri che riporta la memoria del Paese al default del 2001, provocato proprio dall’inadeguatezza strutturale delle condizionalità del FMI applicate dagli anni della dittatura di Videla in poi.
I precedenti e gli errori di Macri
Ultimo regista di un fallimento annunciato fu il presidente Carlos Menem, peraltro lodato per il proprio operato dallo stesso organismo finanziario internazionale. Nel 2006 fu il presidente Nestor Kirchner a saldare il debito internazionale del Paese estromettendo definitivamente il FMI da ogni possibile interazione con la Casa Rosada. Una decisione forte perpetrata da sua moglie Cristina Kirchner una volta alla presidenza.
Ma con la fine del kirchnerismo nel 2015 c’era da aspettarsi il ribaltamento delle strategie internazionali da parte del nuovo governo. L’uscita di scena del socialismo kirchnerista ha però dato sin da subito preoccupanti segnali sul nuovo percorso finanziario intrapreso dal Paese.
Prima tappa del governo Macri è stata proprio la risoluzione del contenzioso del debito estero fortemente contrastato da Cristina Kirchner. Il contenzioso, rimasto aperto con alcune cordate private di creditori, è stato oggetto anche di una sentenza del giudice della Corte distrettuale di Manhattan, Thomas P. Griesa, del luglio 2014. La sentenza attestava per Buenos Aires un default selettivo, ovvero la proiezione di un’insolvibilità parziale da parte del Paese di fronte ai creditori esteri. Verdetto controverso che non si è mai tradotto in una reale sofferenza economica per l’Argentina, ma che ha assottigliato ulteriormente i flussi finanziari in ingresso nel Paese. Ciò ha prodotto un effetto inibitorio sugli investimenti esteri, che vedevano e vedono tutt’ora nell’Argentina un mercato instabile: tradotto significa un rischio d’investimento percepito alto.
Le trattative con i creditori tra 2015 e 2106
Questa la situazione fino al dicembre 2015. All’alba del cambio di governo una delegazione argentina ha riaperto improvvisamente le trattative per la compensazione del debito. Un passaggio cruciale, avvenuto all’Hotel Astoria di Manhattan con lo scopo di trovare il compromesso ideale per la riabilitazione finanziaria internazionale dell’Argentina. Fatti ben illustrati da un approfondimento pubblicato dal New York Times il 25 aprile 2016. Al tavolo delle trattative Luis Caputo, che diventerà poi segretario delle finanze argentine, Jonathan Pollock e Jay Newman, rappresentanti del principale fondo di investimento in causa con il governo di Buenos Aires, ovvero la Elliott Asset Management. Proprio Paul Singer, fondatore e co-presidente della Elliott Asset Management, in una nota sul The Wall Street Journal pubblicata il 24 aprile 2016, spiegava come «[…] i leader argentini hanno voluto usarci come capo espiatorio dei crescenti problemi economici del Paese, insistendo sul fatto che i detentori di buoni come noi non avrebbero mai ricevuto un peso». Poi, rivolgendosi al nuovo governo, ha aggiunto che «capisce che il cammino verso la prosperità deve iniziare con un nuovo compromesso con l’economia globale e una rapida risoluzione della disputa con i creditori […]».
Ci sono solo alcune discrepanze in questa versione. Il finanziere cita come data di inizio delle trattative gennaio, mentre per il noto quotidiano newyorchese i contenuti dell’accordo tra le parti sembrano esser stati più che definiti già a dicembre. Singer inoltre parla dei contenuti dell’accordo (per lui raggiunto in marzo 2016) sottolineando come questo «ha implicato uno sconto significativo, però accettabile dal nostro punto di vista». In termini numerici parliamo di una riduzione del 40% di quanto inizialmente sentenziato da Griesa. Ma Telesur, il 24 febbraio 2016, metteva in luce quanto stava per accadere e quanto poi si è concretizzato, ovvero un accordo estremamente oneroso per le casse argentine: pagare 6.500 milioni di dollari sui 9.000 milioni di dollari, ossia un saldo con sconto del 25%. Una mediazione in cui sembra aver avuto un ruolo il quotidiano argentino La Nacíon e per la quale a renderne noti i contenuti è stato l’avvocato della Elliot Management, Matthew McGill.
Un’operazione che comunque avrebbe garantito un ricavo del 1200% per i creditori esteri e il ripristino di una condizione di debito cronico da parte del Paese sudamericano, pronto a emettere nuovi titoli di debito per accedere altri prestiti. Il governo argentino ha infatti emesso nuovi titoli di debito per l’ammontare complessivo di 16.500 milioni di dollari di cui 2.750 milioni con scadenza a tre anni a un tasso del 6,25%, 4.500 milioni a cinque anni con tasso del 6,85%, 6.500 milioni a dieci anni con il tasso del 7,5% e 2.750 milioni a scadenza trentennale e un premio del 7,62%.
In poche parole l’operazione di Macri è stata quella di accettare incondizionatamente le richieste dei creditori privati esteri generando nuovo debito. Una strategia che sin da subito ha lasciato ben intendere la sua insostenibilità e che oggi si aggrava con il subentro più che ipotizzato del Fondo Monetario Internazionale tra i creditori di Buenos Aires. La capitale vede sempre più all’orizzonte i fantasmi del default del 2001.
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