«Se la prova sarà stabilita mi comporterò di conseguenza, è su questo che si gioca la nostra credibilità». A dirlo è il presidente francese Emmanuel Macron e il riferimento è all’uso di armi chimiche in Siria da parte del governo di Damasco. I giornalisti hanno già ribattezzato la notizia, emersa durante il tradizionale incontro annuale con l’associazione della stampa presidenziale, come la “nuova linea rossa” che già costò una figuraccia al presidente Hollande nell’agosto del 2013, quando Barack Obama sembrò in procinto di bombardare Damasco, salvo poi tirarsi indietro all’ultimo minuto, isolando di fatto l’Eliseo che dovette far rientrare i suoi caccia militari già in volo verso la Siria.

Che cosa abbia condotto Parigi a rilanciare l’ipotesi di una spedizione punitiva contro Assad non è dato sapere, ma i francesi sono da tempo in prima linea sulla questione delle armi chimiche, sin da quando i servizi segreti francesi riferirono di aver scoperto il tipo di agente chimico utilizzato dal regime siriano – il Sarin, considerato un’arma di distruzione di massa dalla risoluzione 687 delle Nazioni Unite – in più occasioni, tra le quali il bombardamento del 2013 contro la popolazione di Ghouta, periferia di Damasco, che uccise circa 1.500 civili di cui 400 bambini, e quello di Khan Sheikhun, nell’aprile del 2017.

 

I corpi delle vittime del presunto bombardamento chimico a Ghouta, agosto 2013

 

Le prove emerse non sono però mai state considerate la “pistola fumante”, pertanto il governo siriano è ancora in piedi e Damasco non è mai stata violata dalle forze NATO. Ma le recenti involuzioni del conflitto, dove alla guerra civile che ha visto lo Stato Islamico protagonista si stanno via via direttamente sostituendo attori internazionali quali Turchia, Israele, Stati Uniti, Russia e Iran, fanno temere il peggio.

Forse, si vocifera, qualcuno sta cercando la scusa per defenestrare Bashar Al Assad una volta per tutte e rimescolare le carte nella geopolitica del Medio Oriente. La prudenza e i toni felpati per ora non consentono simili speculazioni: «Oggi non abbiamo, tramite i nostri servizi e le nostre forze armate, la prova certa che armi chimiche vietate dai trattati internazionali siano state utilizzate contro le popolazioni civili. Ma evidentemente siamo estremamente attenti all’argomento. Ne ho parlato con il presidente russo Vladimir Putin e gli ho chiesto di essere molto chiaro con il regime siriano, che d’altro canto ha riaffermato di non utilizzare questo tipo di armi. Ma noi siamo vigili» ha riferito Macron per evitare fraintendimenti.

Tuttavia, la notizia rilasciata dal Pentagono secondo cui il regime siriano avrebbe utilizzato almeno sei volte agenti chimici in aree sotto controllo dei ribelli, come la provincia di Idlib, ha trovato già la sponda del ministro degli esteri francese Jean-Yves Le Drian, che sostiene di avere «tutte le indicazioni» circa l’uso di agenti chimici da parte del governo.

Dunque, leggendo tra le righe, l’ipotesi di attaccare Damasco è ancora in piedi. E, probabilmente, Washington e Parigi attendono solo un passo falso di Assad o dei suoi alleati (Russia e Iran) per provare a risolvere una volta per tutte la questione della futura gestione della Siria. Mentre tentare di forzare la mano con nuove prove “schiaccianti” da presentare all’ONU, appare a oggi una via impervia da percorrere.

 

Il mancato bombardamento del 2013

 

L’operazione – fortemente voluta da Parigi sin dalle prime dichiarazioni bellicose di Washington, che dichiarava avvenuto il superamento della “red line” – prevedeva un attacco alle ore 03:00 di sabato 31 agosto 2013. L’inizio di questa storia è rintracciabile nelle parole dell’allora consigliere per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Susan Rice, che avverte il primo consigliere diplomatico del presidente, Paul Jean-Ortiz, che l’azione è «imminente».

Il segretario di stato americano, John Kerry, ore dopo si rivolge al collega francese, Laurent Fabius, chiedendogli di prepararsi a gestire anche l’aspetto comunicativo e l’impatto che il bombardamento avrà sull’opinione pubblica francese ed europea. Segno evidente che Washington non scherza e che si è davvero sul punto di passare ai fatti. Così, Fabius si prepara a comporre il prefisso tedesco per avvertire Angela Merkel che la Francia sta per dare il via ai raid. Solo dopo penserà a comporre anche quello del premier britannico, David Cameron, rimasto fuori dai giochi per il rifiuto del parlamento inglese ad agire in Siria. Questo accade nelle prime ore del 31 agosto.

 

Barack Obama e Bashar Al Assad

 

Dopo l’ordine formale promanato dal gabinetto di guerra riunito all’Eliseo (presenti i ministri di Difesa, Interni ed Esteri, il capo di stato maggiore e i direttori del servizio d’intelligence estero, la DGSE), Hollande autorizza l’avvio formale delle operazioni: i caccia Rafale francesi di lì a poco avrebbero bombardato le batterie di missili e i centri di comando della IV divisione dell’esercito di Assad, che dall’Eliseo è sempre stato considerato l’unico vero responsabile degli attacchi chimici. I caccia parigini avrebbero sorvolato il Mediterraneo con il loro carico di bombe, evitando accuratamente di lambire lo spazio aereo turco, per evitare pericolose rappresaglie su Ankara da parte del regime ed evitare così di allargare il conflitto da subito.

Sostiene il Nouvel Observateur che i missili francesi, non potendo arrivare oltre i 250 km di gittata, avrebbero avuto la necessità di un sostanziale appoggio americano nelle ore successive, come peraltro garantito dai piani di guerra, condivisi nelle settimane precedenti l’attacco tra i vertici politici e militari franco-americani. Si fa giorno sull’Europa e a Parigi, ai piani alti dell’Eliseo, tutti ormai aspettano solo il via libera di Barack Obama, che però tarda ad arrivare. Alle otto del mattino la telefonata finalmente arriva, ma rimanda alle 18:15 la conferma del via libera definitivo.

Invece, aprendo la televisione, Francois Hollande e tutto il suo gabinetto di guerra si accorgono che la telefonata che annuncia l’ora X non arriverà mai: Barack Obama ha appena annunciato al mondo intero che chiederà al Congresso l’autorizzazione alla strike. Il presidente francese scopre in questo modo, e con suo sommo stupore, che l’America non deve tenere in grande considerazione gli alleati europei se, dopo tutto quel lavoro condiviso, si permette di non avvertire Parigi neanche per cortesia formale. Uno sgarbo che Macron non ha intenzione di ripetere, visto che su questo «si gioca la nostra credibilità»