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I politici russi sono notoriamente lungimiranti e per questo motivo hanno aperto da qualche anno un nuovo fronte del confronto Est-Ovest, che guarda al Polo Nord. Grazie al riscaldamento climatico e al parziale scioglimento dei ghiacci dell’Artico, si sono aperte in quei mari finora inaccessibili nuove vie di comunicazione che portano dritte a giacimenti di gas naturale che, si stima, contengano il 30% delle riserve mondiali e il 13% delle riserve di petrolio.

Lo scioglimento dei ghiacci ha inoltre aperto nuove rotte commerciali via mare tra l’Asia Orientale e l’Europa e questa è certo un’opportunità per la Russia per sviluppare infrastrutture logistiche nel nord del Paese. Siccome le vie del commercio e del progresso economico sin da quando esiste l’uomo sono state aperte dai militari, Mosca ha attivato un processo di militarizzazione della parte russa dell’Artico, dislocando la nona flotta – che rappresenta i due terzi di tutta la forza navale russa – nell’arcipelago della Novaya Zemlya. Mentre sull’isola maggiore è stato recentemente ingrandito e ammodernato un aeroporto attrezzato per accogliere i jet e i bombardieri più moderni e sofisticati dell’ex Armata Rossa.

Forse allo scopo di mandare un segnale concreto alla NATO, alla fine del 2014 il ministero della Difesa russo ha organizzato nella regione artica l’esercitazione Vostok 2014, la più grande esercitazione militare dalla caduta dell’Unione Sovietica. Migliaia di soldati di terra, mare e aria hanno “giocato alla guerra” utilizzando gli armamenti più moderni e sofisticati, missili tattici balistici compresi. Nello stesso tempo, il comando della nona flotta ha annunciato il dispiegamento della brigata di fanteria di marina nella regione dell’Artico per tutto il 2015.

 

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La spiegazione politica di questa presenza militare nelle regioni dell’Artico era già contenuta nel testo della dottrina militare russa presentata dal presidente Vladimir Putin nel dicembre del 2014. Secondo la “Dottrina Putin”, l’Artico viene inserito nella lista delle zone prioritarie di influenza di Mosca. L’importanza del suo controllo viene equiparata all’importanza assegnata al Mar Nero e alla Crimea.

Queste iniziative hanno sollevato i giustificati timori dell’unico Stato dell’Alleanza Atlantica presente fisicamente nella regione artica, la Norvegia. Il governo di Oslo sa di essere diventato una “bestia nera” per Mosca, dopo aver preso parte attiva al programma di sanzioni deciso dai membri della NATO in risposta al sostegno russo dei separatisti ucraini. Putin, d’altronde, sa bene che l’articolo 5 della Carta della NATO prevede una risposta automatica di tutti i membri dell’Alleanza nei confronti di una possibile aggressione contro uno di loro.

Per questo, difficilmente i russi supereranno il punto di non ritorno nei rapporti con i norvegesi al Polo Nord. Tuttavia, l’apertura di questo nuovo fronte introduce un ulteriore elemento di destabilizzazione nei rapporti tra Mosca e l’Occidente e può essere utilizzata da Putin per alleggerire la pressione in Ucraina. Inoltre, il Cremlino sa che quando si tratta di acquisire territori l’azione vale più delle parole, come insegnano i casi della Crimea e delle basi militari conquistate in Siria. Per cui è presumibile che, passo dopo passo, l’influenza russa nei mari dell’Artico sia destinata ad aumentare, mentre NATO ed Europa sono impegnate e “distratte” dalla crisi ucraina.

 

La corsa agli idrocarburi

Sarà pure vero che abbiamo più mappe della luna che dei mari profondi, ma questa volta i fondali artici stanno per essere rivoltati come materassi. Come detto, ormai non è più un segreto che sotto quell’enorme Tebaide di nevi perpetue, si nasconde oltre il 30% delle riserve planetarie di idrocarburi non ancora esplorati. Perciò, complice la graduale riduzione della calotta artica per l’incombente global warming, gli abissi atlantici stanno diventando oggetto di un’operazione cartografica molto accurata.

Le indicazioni che ne deriveranno potrebbero modificare la linea di confine tra i Paesi che si affacciano sul Mar Glaciale Artico. Russi, danesi, canadesi e norvegesi sono assolutamente determinati a prolungare la propria piattaforma continentale per assicurarsi una porzione sempre maggiore delle preziose riserve energetiche custodite sotto i fondali artici.

 

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Le dispute territoriali

Non è tutto. Le reiterate dispute territoriali hanno inaugurato una nuova fase di gelo internazionale. Dopo la Guerra Fredda è iniziata la Guerra Glaciale e la geopolitica del ghiaccio rischia di inasprire i rapporti internazionali. L’Artide, infatti, diversamente dall’Antartide non è stato oggetto di alcuna disciplina internazionale di tipo pattizio. I contrapposti interessi degli Stati rivieraschi vanno, dunque, contemperati mettendo mano alla Convenzione ONU sul Diritto del Mare del 1982 (Unclos).

Secondo la Carta, i Paesi litoranei possono rivendicare diritti di sfruttamento sui giacimenti marini entro la zona economica esclusiva, a condizione che dimostrino che i fondali artici sono il prolungamento della loro piattaforma continentale. Vale a dire del territorio terrestre comprensivo di fondo e sottosuolo marino: tale limite esterno, coincidente con quello della piattaforma continentale, è fissato in 200 miglia marine. Qualora invece il bordo esterno del margine continentale si trovi al di là della linea delle 200 miglia, l’art. 76 della Convenzione prevede due criteri alternativi per delimitare la piattaforma: uno fa leva sulla linea di settore, l’altro sulla linea mediana. A ogni modo, è stabilito un limite che entrambi i metodi non possono superare: esso consiste in una linea tracciata a 350 miglia marine dalla linea di base o, in alternativa, in una linea tracciata a 100 miglia dalla isobata dei 2.500 metri.

Ne consegue che ogni Stato costiero ha facoltà di scegliere il criterio più favorevole. Tant’è che i Paesi dello scacchiere polare si sono messi davvero d’impegno a suffragare dinanzi all’organismo tecnico della Convenzione le rivendicazioni di “territorializzazione” del Mare Artico. Se non altro per tenere a bada le compagnie petrolifere, prudentemente restie a impegnarsi con investimenti in zone marittime contestate.

Lo scorso mese, il Canada ha presentato alla Commissione ONU per i limiti della piattaforma continentale una domanda di estensione dei confini settentrionali, sul presupposto che la dorsale di Lomonosov colleghi lo zoccolo continentale canadese al Polo Nord. Anche Russia e Norvegia hanno formalizzato al Palazzo di Vetro richieste di estensione della giurisdizione territoriale fino al limite massimo delle 350 miglia marine. Questo mentre tra le due potenze del Nord pende una controversia sulla delimitazione della piattaforma continentale nel Mare di Barents: i norvegesi sostengono il criterio della linea mediana, i russi quello della linea di settore.

Anche tra Canada e USA esiste un contenzioso riguardante la delimitazione della piattaforma continentale nel Mare di Beaufort: i canadesi vorrebbero una demarcazione lungo la linea di settore del 141° di longitudine; gli statunitensi propendono, invece, per l’impiego del criterio della linea mediana. Intanto è notizia recente che la Danimarca sia in procinto di presentare alla Commissione ONU prove che vorrebbero la piattaforma continentale groenlandese collegata al Polo attraverso le dorsali sottomarine di Lomonosov e Mendeleev, che originerebbero dall’Arcipelago della Severnaya Zemlya.

Insomma, la questione delle demarcazioni si prospetta come un vero e proprio rompicapo per i giuristi. Il problema vero sta nel dettato del sopra citato art. 76 che, prevedendo parametri alternativi per la delimitazione dei confini, contrappone punti di vista divergenti: l’autonomia degli Stati costieri di stabilire i propri limiti alla piattaforma continentale anche oltre le 200 miglia marine finisce, così, per scontrarsi con gli interessi di Stati che storicamente hanno goduto di libero accesso e di aree marittime rivendicate.

Con la conseguenza che la Commissione poco ha potuto finora poiché, quando le richieste di sovranità riguardano la medesima dorsale oceanica, devono essere gli stessi contendenti a trovare un accordo, con la supervisione di tutti i firmatari della Convenzione.

In conclusione, i Paesi dell’estremo nord cominciano a star stretti come sardine. E probabilmente sbagliano a puntare sui fondali atlantici una posta eccessiva. La verità è che la coperta del letto oceanico è corta. Senza contare che le ingenti percentuali di greggio sommerso potrebbero essere sovrastimate. Poco male. I litiganti sono più che mai decisi a spartirsi la pancake ice e affondare l’acciaio nelle profondità.