L’Asia centrale costituisce un quadrante geopolitico di fondamentale importanza, non solo nella prospettiva russa e cinese. Quali altri attori sono coinvolti? Quale futuro si prospetta per la macroregione? Abbiamo approfondito l’argomento con Vincenzo D’Esposito, analista geopolitico di centri studi e riviste su tematiche di attualità internazionale.

Che ripercussioni ha avuto la crisi in Kazakistan di inizio 2022 nello spazio post-sovietico?

È certamente vero che sono in atto da tempo in Europa orientale e in Asia centrale delle scosse che puntano alla modifica dello status quo geopolitico, ma qualcosa di simile agli eventi di quest’anno, mi riferisco alla guerra russo-ucraina e al gennaio di sangue kazako, non se li aspettava nessuno. Non tanto per la mai celata volontà politica di affrancarsi, almeno parzialmente, dall’abbraccio russo, quanto per la violenza e l’intensità degli scontri che si sono avuti, in Kazakistan quanto in Ucraina. Il Kazakistan certamente ha fatto scuola nel mondo post-sovietico, rappresentando il paziente zero che ha portato per la prima volta all’attivazione del Csto (Collective Security Treaty Organisation). L’alleanza, formata da Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan, non era mai intervenuta direttamente a sostegno di uno Stato membro, come visto durante la seconda guerra del Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbaigian e nel breve conflitto tra Tagikistan e Kirghizistan sul fiume Isfara dello scorso anno. L’invio di soldati alleati per sedare gli scontri in corso, sebbene a scopo puramente simbolico, vista l’esiguità delle forze inviate, ha rappresentato il riconoscimento da parte di Nur-Sultan del proprio status di Paese too big to fail per la Russia e gli altri membri dell’alleanza. Sebbene gli eventi del gennaio di sangue possano essere interpretati con più chiavi di lettura, soprattutto visto il depotenziamento del clan dell’ex presidente Nazarbayev avutosi quasi immediatamente dopo lo scoppio delle proteste, ma che era in corso già da qualche anno, la presidenza Tokaev non ne esce necessariamente rafforzata. Percepito come un prestanome dell’ex presidente, l’attuale capo di Stato ha dovuto promettere in questi mesi ampie riforme in senso liberale per accattivarsi la società kazaka e placarne gli animi, sollevando però dei dubbi circa la reale volontà della classe dirigente di auto-limitarsi e avviare una transizione democratica. Le scosse economiche legate alla guerra in Ucraina che hanno colpito di rimbalzo il Paese centroasiatico non aiutano in questo percorso, richiedendo una leadership forte per imprimere al Paese una svolta strategica e decidere se continuare a guardare verso Mosca con la stessa intensità avutasi finora o attuare una politica realmente multivettoriale.

A seguito del tentato golpe in Kazakistan, Russia e Cina hanno ribadito la loro volontà a cooperare per la stabilità dell’area. Ma fino a che punto gli interessi delle due potenze nel centro Asia convergono?

Le agende politiche delle due superpotenze del continente eurasiatico convergono fintantoché non si vanno a pestare i piedi a vicenda in un teatro complesso come quello centroasiatico. Mi spiego meglio. La rilevanza strategica dell’Asia centrale emerge almeno sotto tre aspetti fondamentali: sicurezza e lotta al terrorismo, rifornimenti di materie prime e di energia, snodi logistici e commerciali. È chiaro che la Cina e la Russia siano interessate a diversi aspetti di questo quadro e non necessariamente a tutti nello stesso modo, ma in alcuni punti i desiderata delle due potenze si sovrappongono e rischiano di creare attrito tra Mosca e Pechino. Sul piano securitario, la Russia rappresenta indubbiamente il principale attore regionale, vista la storica tradizione di cooperazione militare e la presenza di basi russe in vari Paesi centroasiatici. La regione riveste per la Russia il ruolo di cuscinetto nei confronti della minaccia terroristica che si propaga dall’Afghanistan e che, potenzialmente, potrebbe destabilizzare non solo gli Stati musulmani, seppur laici, dell’Asia centrale, ma anche i milioni di musulmani che vivono da secoli nella Russia del sud. La strategia moscovita di controllo della steppa per arginare attacchi al proprio territorio provenienti da sud-est, testimonianza di una cicatrice lasciata dalle orde mongole e mai definitivamente sanatasi, spinge la Russia a difendere se stessa nel proprio estero vicino, quindi anche in Asia centrale, per evitare di ritrovarsi eventuali nemici direttamente in casa.

Che partita sta giocando, invece, la Cina?

La Cina, dal canto proprio, ha una tradizione di non ingerenza nelle questioni interne agli altri Stati, per cui il proprio interesse in termini securitari nella regione si limita alla lotta al terrorismo, assicurando che i canali di comunicazione restino aperti ed evitando che la resistenza della popolazione uigura dello Xinjiang riceva aiuti dall’esterno. Dal punto di vista degli snodi logistici e commerciali e sul piano energetico, invece, la competizione tra Mosca e Pechino diventa più marcata. Se la Cina necessita di cospicui rifornimenti per soddisfare la domanda della propria economia, la Russia ha da tempo messo gli occhi sull’Asia centrale e ha puntato a diventarne la guida anche economicamente. Tuttavia, la produzione russa non è in grado di assorbire l’offerta centroasiatica, per cui spesso Mosca acquista nella regione beni a basso costo per poi rivenderli in Europa, come accade per gli idrocarburi e il gas. Pechino, invece, sta lavorando con la propria diplomazia per assorbire integralmente l’Asia centrale nelle proprie catene del valore e farne uno dei perni. La questione della trappola di Malacca, uno stretto che limita l’autonomia dei rifornimenti che giungono in Cina via mare, esponendoli al rischio di blocchi, ha spinto da tempo la classe dirigente cinese a diversificare i propri canali di approvvigionamento, guardando così anche all’Asia centrale. Le infrastrutture logistiche presenti nell’area seguono questo dualismo, con una prevalenza di investimenti cinesi che, grazie anche al progetto geo-economico delle Vie della Seta, puntano a fare della regione centroasiatica un cardine del percorso che unirà l’Estremo oriente all’Europa occidentale. Nonostante la Russia abbia tentato di frenare la penetrazione cinese nella regione tramite la creazione di una serie di organizzazioni di integrazione regionale, la differenza nella potenza di fuoco in termini di investimenti tra Mosca e Pechino è assolutamente squilibrata, con la Cina che cresce economicamente di una Russia all’anno e che, pertanto, riesce a investire molto di più. I Paesi centroasiatici hanno bisogno sia di sicurezza sia di investimenti, per cui difficilmente nei prossimi anni vedremo una presa di posizione netta a favore di un attore o dell’altro, al netto di una generale tendenza verso la riduzione dell’influenza russa e di una velata sinofobia che permea la società centroasiatica e che si acuisce man mano che cresce l’influenza cinese nell’area.

Può un attore regionale come quello turco giocare un ruolo importante nell’area?

La Turchia ha fin dall’indipendenza delle cinque repubbliche centroasiatiche cercato di ritagliarsi una nicchia nelle agende politiche degli –stan. Basandosi sui legami linguistici, religiosi e culturali, Ankara ha fatto leva su questi elementi per avvicinarsi all’Asia centrale, fornendo un aggancio oltre Caspio che potesse fare in parte da contraltare alle spinte egemoniche di Russia e Cina. Il Kazakistan e il Turkmenistan, in particolare, coltivano strette relazioni con la Turchia, che si sostanziano in vicinanza politica e incremento degli scambi commerciali, oltre che in un flusso di migranti che dall’Asia centrale si sposta verso l’Anatolia per cercare lavoro e inviare rimesse in patria. Negli ultimi anni, inoltre, la presidenza Erdogan e l’energico ministro degli Esteri turco Cavusoglu hanno intrapreso delle iniziative volte ad avvicinare ulteriormente la regione ad Ankara. Il rilancio del Consiglio turco e dell’Organizzazione di cooperazione economica, oltre alle azioni messe in campo sul piano energetico da parte del principale alleato della Turchia nell’area, l’Azerbaigian, puntano a saldare le due sponde del mar Caspio almeno da un punto di vista chiave: l’energia. Ankara vive in una condizione di forte dipendenza dall’estero per le proprie forniture energetiche, importando in particolare dalla Russia. Nella strategia turca un avvicinamento alla regione centroasiatica potrà portare a diversificare i canali di approvvigionamento energetico e incrementerà il peso del Paese nell’area, soprattutto se Azerbaigian e Turkmenistan riusciranno a realizzare il gasdotto Transcaspico, pompando carburante nei gasdotti anatolici che arrivano fino all’Egeo.
Sul piano commerciale il contributo che la Turchia può apportare all’Asia centrale appare modesto, vista la concorrenza della Cina e della Russia. Ciononostante, con il Kazakistan è in programma di incrementare il volume di interscambi fino a raggiugere la quota di 10 miliardi di dollari all’anno, mentre molti Paesi dell’area guardano con crescente interesse alle specializzazioni industriali della Turchia: si va dall’interessamento ai droni militari Bayraktar da parte di più –stan fino alla messa a punto in modo congiunto del vaccino kazako QazVac, che senza il supporto turco difficilmente sarebbe stato realizzato così velocemente. Ankara si sta assestando stabilmente come terzo attore più importante per l’Asia centrale, frustrando le velleità iraniane e pakistane, che pure guardano con interesse a una regione ad essi molto vicina e con cui condividono molti aspetti storico-culturali, se non proprio linguistici come nel caso di Tagikistan e Iran. La politica estera turca appare in tal senso efficace nel colmare i pochi spazi che appaiono vuoti senza essere percepita come una minaccia da parte degli -stan.

Quali sono allo stato attuale i rapporti politici tra i vari -stan? Non mancano gli attriti, in termini di risorse soprattutto.

L’Asia centrale sta riscoprendo timidamente uno spirito regionalista, grazie al ricambio generazionale delle classi dirigenti e al progressivo superamento di molte delle criticità che ne hanno condizionato lo sviluppo. Questo non vuol dire che siano solo rose e fiori. Tutt’altro. Le questioni scottanti ancora oggi per gli –stan restano sostanzialmente tre: la definizione dei confini e la loro accettazione; la distribuzione irregolare delle diverse etnie sul territorio; l’allocazione delle risorse naturali in maniera chiara. Partiamo dal primo punto: i confini. Al momento dell’indipendenza delle cinque repubbliche centroasiatiche la delimitazione dei rispettivi territori si è rifatta alle divisioni amministrative sovietiche, a loro volta frutto del lavoro di una serie di commissioni nominate ad hoc nel corso degli anni da Mosca per ridefinire l’assetto dell’Asia centrale, che ha più volte mutato forma. Sarebbe il caso di ricordare che le cinque repubbliche per come le conosciamo oggi non sono mai esistite: la regione, al momento dell’annessione alla Russia zarista a metà Ottocento, era governata dal Khanato di Kokanda, dal Khanato di Khiva e dall’Emirato di Bukara, civiltà delle oasi che esercitavano un controllo labile sulle steppe e successivamente inglobate nel cosiddetto Turkestan russo. I nomi dei luoghi in molti casi non erano fissi, basti pensare all’esempio del Kazakistan, definito Kirghizistan per molti decenni, mentre l’odierno Kirghizistan era definito Kara-Kirghizistan. È stato, dunque, semplice per il regime sovietico mettere mano alla geografia amministrativa dell’Asia centrale per evitare l’emersione di centri di potere eccessivamente autonomi e privi di elementi destabilizzanti al proprio interno. Da qui l’apparente irrazionalità di buona parte dei confini centroasiatici.

Ci sono altri elementi di frizione?

Le tensioni etniche si sono aggiunte a questo scenario soprattutto a partire dal 1991, quando i confini tra le cinque repubbliche sono diventati sempre meno permeabili. Comunità etnicamente affini e tradizionalmente in contatto tra di esse si sono trovate spezzate in due, o addirittura tre Stati diversi. Basti pensare alla valle del Fergana, cuore pulsante e motore trainante dell’intera regione, solcata dal fiume Syr Darya: un tratto appartiene al Kirghizistan, poi c’è l’Uzbekistan, poi il Tagikistan, che ha tutto il resto del territorio al di là dello spartiacque eppure controlla un tratto di Syr Darya, poi di nuovo l’Uzbekistan e, infine, la valle si apre in un’ampia pianura e si entra in territorio kazako. È naturale che in un territorio di contatto tra diverse etnie l’erezione di barriere doganali abbia rappresentato una fonte di frustrazione, con conseguenti tensioni interstatali e interetniche legate ai processi di costruzione dell’identità nazionale nei diversi Stati in un’ottica contrastiva rispetto ai vicini. Popolazioni sparpagliate nei diversi Paesi hanno reso ulteriormente complicata la situazione, come emerso a causa delle numerose enclave che punteggiano Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan, e che sono fonte di tensioni e scontri costanti. L’anno scorso tagiki e kirghisi si sono combattuti per alcuni giorni proprio a causa di un’enclave tagika in territorio kirghiso, Batken, collocata strategicamente sul fiume Isfara, un affluente del Syr Darya. Nel corso del processo di definizione dei confini tra i due Stati, infatti, sono affiorate da parte kirghisa alcune velleità di annessione dell’enclave tagika, da compensare eventualmente con la cessione di corrispondenti territori kirghisi di confine al Tagikistan. Il presidente tagiko Emomali Rahmon si è recato personalmente a Batken per rassicurare la popolazione circa la ferma volontà di Dušanbe di mantenere il territorio unito alla madrepatria, ma ciò non ha impedito nell’aprile dello scorso anno l’esplosione di un violento, seppur breve, scontro tra i due Paesi. E qui si innesta l’ultima delle questioni che limita la collaborazione tra gli –stan.

Quale?

La distribuzione irregolare delle risorse naturali sul territorio, in particolar modo dell’acqua. Presente in grandi quantità ma ben localizzata in alcune aree specifiche, questa è stata impiegata dall’Unione Sovietica così intensamente per completare l’opera di canalizzazione e di irrigazione che si è arrivati alla quasi totale evaporazione di quello che fu il terzo lago più grande del mondo: il lago d’Aral. Un’agricoltura inefficiente, la mancanza di manutenzione delle infrastrutture idrauliche e l’eccessiva dipendenza dalla monocoltura del cotone hanno impedito agli –stan di riportare alla vita quello che ad oggi appare come un vasto deserto salato. Il passaggio dell’oro blu da bene percepito come abbondante a bene scarso ne ha comportato la tesaurizzazione da parte degli Stati che ne controllano le maggiori quantità, Kirghizistan e Tagikistan soprattutto, mentre Uzbekistan e Turkmenistan, con il Kazakistan più defilato, premono per avere meno dighe nelle due piccole repubbliche montane e poter contare su maggiori flussi idrici. Come si è visto anche nel corso dei primissimi giorni di guerra tra Russia e Ucraina con l’occupazione russa delle infrastrutture del Canale Crimeano Settentrionale, ostruite da parte degli ucraini a seguito dell’annessione russa della Crimea, l’acqua è un bene essenziale e può essere causa, o concausa, di conflitti e vere e proprie guerre. In un contesto fragile come quello centroasiatico, potrebbe essere importante tenerlo a mente.

Nella foto la capitale del Kazakhstan Astana (credit aboutkazakhstan.com)