Il segretario di Stato americano Rex Tillerson è arrivato a Mosca per discutere di Siria con il suo omologo Sergej Lavrov. Ma già a margine del G7 dei ministri degli Esteri, andato in scena a Lucca il 10 aprile 2017, ha reso noto il pensiero del Dipartimento di Stato: «Il regno di Bashar Al Assad sta arrivando alla fine». Con ciò ha forse inteso mettere una pietra tombale sul futuro politico del presidente siriano, dopo che già nel 2013 sempre in relazione all’uso di armi chimiche l’Amministrazione Obama aveva tracciato una “red line”, superata la quale Assad è però rimasto al suo posto. Chissà se stavolta la nuova Amministrazione saprà essere più perentoria. Intanto, vale la pena ricordare chi è Assad e come si è ritrovato alla guida della Repubblica Araba di Siria. Ma prima, alcune considerazioni preliminari.

Salito al potere nel 2000, Bashar Al Assad ha guidato senza troppi ostacoli la Siria connotando presto la sua presidenza come un regime autoritario, dove non sono mancate torture e repressioni delle opposizioni, dopo un felice inzio riformatore. Questo sino al 2010, anno delle prime rivolte di piazza trasformatesi l’anno successivo in aperta guerra civile, in seguito alla quale il presidente ha aperto la strada a una violenza che non conosce fine.

Chi legge queste parole critiche sulla presidenza Assad troverà ottimi argomenti per controbattere. Dirà che Assad è il leader riconosciuto di un paese sovrano, eletto più volte dal suo popolo e perciò legittimato nell’esercizio del potere. Nessuno lo nega. Tuttavia, non si può dire che la Repubblica Araba di Siria sia mai stata una democrazia, tantomeno una evoluta, mentre si può affermare che sia stata una dittatura.

Nessuno pretende d’imporre la democrazia come valore assoluto a ogni latitudine del globo. La presunzione americana di volerla imporre in Medio Oriente e oltre, è già costata troppe vittime, senza peraltro mai vedere la luce (vedere, su tutti, l’Iraq). E non è argomento sufficiente per avallare le richieste di un passo indietro del presidente siriano. Ma il punto è una altro. Bashar Al Assad non può guidare più la Siria, semplicemente perché la Siria non esiste più.

Bashar Al Assad non può guidare più la Siria, semplicemente perché la Siria non esiste più

Dunque, Russia o non Russia (Mosca sinora ha difeso e protetto l’alleato siriano, garantendogli la sopravvivenza al potere) una transizione politica dopo oltre 45 anni di dominio della famiglia Assad è una prospettiva ragionevole per pacificare la regione e placare le lotte politiche e gli scontri entici.

Questo non significa che non vadano combattuti anche gli islamisti – dai qaedisti di Tahrir Al Sham al Califfato – ma che si devono fare le due cose insieme. Vedremo se l’incontro tra Rex Tillerson e Sergej Lavrov (in rappresentanza di Donald Trump e Vladimir Putin) in programma oggi 12 aprile, produrrà una road map o un accordo per un’exit strategy credibile. Certo, i toni usati da entrambe le amministrazioni all’indomani dell’attacco chimico su Idlib, per il momento non aiutano il dialogo.

La storia degli Assad al potere

Il terzogenito della famiglia alawita più detestata al mondo, si è ritrovato suo malgrado successore designato alla guida della Siria. È stato, infatti, solo per volere del padre-presidente Hafez Al Assad, che Bashar ha dovuto vestire i panni del dittatore, quando invece probabilmente il terzogenito avrebbe preferito un camice bianco da dottore, lasciando ai fratelli maggiori “l’onere della corona”.

Anche suo padre Hafez, nono di undici figli, sognava di fare il medico. Ma la vita lo portò invece a intraprendere la carriera militare, precisamente nell’aeronautica, dove divenne prima giovane pilota e poi – complice un colpo di stato militare – scalò i vertici delle forze armate fino a diventare ministro della Difesa a soli trentasei anni, periodo durante il quale dovette affrontare sfide cruciali come la Guerra dei Sei Giorni contro Israele.

Salito al potere con l’incarico di presidente attraverso un nuovo golpe nel 1971, guidò la Siria ininterrottamente sino alla morte. E per farlo, usò il pugno di ferro in un’epoca storica in cui l’indipendenza nazionale era fragile e il suo partito laico e nazionalista, il Baath, era il solo argine all’islamismo militante della Fratellanza Musulmana, che sognava una Siria islamizzata e retta dalla Sharia.

È stato solo per volere del padre-presidente Hafez Al Assad che Bashar ha dovuto vestire i panni del dittatore, quando invece probabilmente avrebbe preferito un camice bianco da dottore

Hafez s’impose presto per carisma e riforme, potenziando l’esercito e modernizzando il paese. Passato indenne dalla guerra dello Yom Kippur del 1973 e dalla guerra civile libanese del 1976, nel 1982 dovette affrontare le dure rivolte popolari organizzate dalla Fratellanza Musulmana, per mettere fine alle quali diede vita al massacro della città di Hama, dove fece uccidere 30mila siriani in meno di un mese.

Nel 1984 scampò a un tentativo di colpo di stato ordito da suo fratello minore Rifaat che, approfittando di un infarto che lo aveva costretto a lasciare temporaneamente il potere, guidò su Damasco 50mila uomini a lui fedeli, prima di essere fermato dal presidente stesso. Hafez impedì il golpe alzandosi dal letto d’ospedale e chiamando la folla a difendere le istituzioni. Il presidente però non si vendicò sul fratello, anzi lo graziò esiliandolo in Francia, dove vive ancora oggi e dove è indagato per corruzione (così come in Spagna).

Bashar Al Assad, presidente per caso

È in quest’ambiente avvelenato e violento che Bashar, classe 1965, cresce e si forma. Non volendo seguire le orme del padre, se non per coronare a sua volta il sogno di diventare medico, decide di studiare medicina in patria e di partire poi per l’Europa. Si stabilisce così nel Regno Unito, dove nel 1992 diventa un giovane e appassionato studente di oftalmologia. A Londra inizia una vita da ricercatore presso il Western Eye Hospital.

In questi anni, Bashar ama vivere all’occidentale e non a caso conosce e s’innamora di Asma, una promettente venticinquenne di Londra che lavora alla JP Morgan e proviene da una famiglia siriana d’estrazione musulmana sunnita. Il futuro presidente sposa Asma in gran segreto nel 2000, pochi mesi prima di fare rientro in Siria in tutta fretta a causa della morte improvvisa del padre per infarto.

Al capezzale del padre, Bashar viene scelto quale candidato presidente dall’entourage del presidente. A Damasco in quei giorni si mormora «ma fii gheiyrhu» ovvero «non c’è nessun altro» a voler significare che l’alternativa è il rischio di una sconfitta degli assadisti-baathisti e della relativa perdita di potere in favore degli islamisti, pericolosamente in ascesa.

Bashar viene scelto quale candidato presidente dall’entourage del presidente. A Damasco in quei giorni si mormora «ma fii gheiyrhu» ovvero «non c’è nessun altro» a voler significare che l’alternativa è il rischio di una sconfitta degli assadisti-baathisti

Suo padre sapeva bene che lui era impreparato e non inadeguato al comando della Siria. Per questo gli aveva preferito il primogenito, Bassel. Purtroppo, però, si era dovuto ricredere quando nel 1994 un incidente automobilistico aveva ucciso il figlio prediletto. Bashar è così costretto a una rapidissima carriera militare, che lo trasforma in colonnello dopo aver bazzicato per poco tempo l’accademia militare di Homs. Hafez prima e il clan degli alawiti, poi, non hanno infatti alcuna intenzione di lasciare la Siria ai sunniti e blindano la candidatura del terzogenito degli Assad.

Come prevedibile, la morte del padre lo proietta direttamente nel palazzo presidenziale di Damasco, pur se la sua nomina formalmente contraddice la legge: l’età minima per assumere la carica è di 35 anni mentre Bashar, all’epoca, non li aveva ancora compiuti.

Bashar passa così dalla quiete dei libri di medicina e una vita molto agiata a Londra, a governare controvoglia un paese che ogni anno diventa per lui sempre più difficile da gestire e che, dopo due lustri lo trascinerà nell’inferno della guerra civile, per aver risposto con la violenza alle proteste di piazza proprio come fece suo padre prima di lui. Ma i tempi sono oltremodo cambiati e poi Bashar non è Hafez.

La fine del regno degli Assad

Da allora, il destino del presidente della Siria è apparso segnato e ancora oggi la sensazione è che non sia mai stato sotto il suo pieno controllo. Con l’esplodere della guerra, inoltre, è legittimo ritenere che le decisioni del consiglio di guerra siriano da un certo momento in poi non siano più state espressione del suo volere. Magari di quello del fratello Maher, generale di divisione e comandante delle truppe di élite della Quarta divisione corazzata, o peggio degli strateghi di Teheran o persino di Mosca.

Questo perché, grazie proprio all’appoggio di Iran e Russia, Bashar Al Assad è riuscito sinora a tenere in piedi il suo governo a Damasco, pur essendo a sua volta prigioniero di questa guerra. Che però non è bastata a reprimere le spinte centrifughe che in meno di sei anni hanno disintegrato l’unità territoriale e posto le basi per la creazione di nuove entità statuali o amministrative.

Grazie proprio all’appoggio di Iran e Russia, Bashar Al Assad è riuscito sinora a tenere in piedi il suo governo a Damasco, pur essendo a sua volta prigioniero di questa guerra

Questa è per sommi capi la storia di Bashar Al Assad, l’uomo che è riuscito a distruggere la Repubblica Araba di Siria dopo settant’anni dalla sua indipendenza, ottenuta nel 1946 però sempre costellata da una serie impressionante di colpi di stato (tredici prima dell’arrivo della sua famiglia al potere, ottenuto anche in questo caso con un colpo di stato).

Eppure, ancora nell’aprile del 2017 il presidente per il momento resta aggrappato al potere e resiste strenuamente agli attacchi dei ribelli e delle forze internazionali nonostante un paese in macerie, milioni di siriani dispersi nel mondo e un altro mezzo milione seppelliti. Quanto ancora potrà far fronte all’ineluttabile, è difficile dirlo. E anche in questo caso non dipende da lui, ma da Washington e Mosca.