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La dinastia Qing cadde a causa di un potente generale che acquisì il comando del Nuovo Esercito. Allo stesso modo, Chiang Kai-shek venne sconfitto sul campo di battaglia per non essere riuscito a tenere insieme le sue truppe. La principale preoccupazione dell’attuale presidente cinese Xi Jinping è impedire che i generali e i suoi oppositori politici tramino alle sue spalle. Un pericolo che Xi ha cercato di evitare in tutti i modi promuovendo ai gradi più alti dell’esercito i “suoi” uomini e serrando i ranghi dei militari, anche attraverso una poderosa riforma delle forze armate. Imparando dal vecchio uso di Mao, Xi ha rimosso i comandanti dal loro ambiente di origine per scongiurare alleanze regionali ai suoi danni.

 

Di chi non si fida il presidente cinese

La diffidenza del presidente cinese verso i generali sembra essere giustificata dalla notizia, priva di conferma ufficiale, diramata dalla stampa di Hong Kong che ha paventato l’ipotesi di un colpo di mano fallito contro di lui. L’eventuale congiura contro Xi sembra confermata dall’arresto per corruzione, lo scorso 9 gennaio, del generale Fang Fenghui, 66 anni, ex capo dello Stato maggiore congiunto cinese e membro importante della Commissione militare centrale.

L’arresto di Fang non fa pensare a nulla di buono e acuisce i sospetti di un contrasto interno tra i vertici militari e Xi. Solo lo scorso aprile il generale conservava un posto di riguardo durante la cena organizzata per il vertice tra Donald Trump e Xi nella residenza del presidente statunitense a Mar-a -Lago, in Florida. Fang, infatti, sedeva accanto a Ivanka, figlia e influente consigliere del presidente degli Stati Uniti. Non solo, il governo di Pechino aveva riconosciuto al generale anche la libertà di negoziare direttamente con Joseph Dunford, massimo esponente delle forze armate USA, le linee di un accordo di consulenza reciproca da attuare nel caso di una crisi navale al largo della penisola coreana. Fang era diventato talmente affidabile per Pechino e talmente autorevole che molti lo indicavano come candidato alla vicepresidenza della Commissione militare centrale.

Le accuse contro di lui risalgono al 2015, quando un altro ufficiale, Liu Yuan, aveva denunciato il pagamento di 30 milioni di yuan, quasi 4,6 milioni di dollari, che il generale avrebbe sborsato nel 2010 per la sua promozione. Il quotidiano di Hong Kong Sing Tao Daily ha aggiunto benzina sul fuoco, rivelando che sarebbe stato Fang a parlare di un fallito golpe contro Xi, diffondendo anche i nomi degli altri ufficiali coinvolti, primo fra tutti Fan Changlong. L’arresto di Fang sarebbe inoltre da collegare al suicidio nel novembre 2017 di un altro generale: Zang Yang Zhan, finito anch’egli nel giro delle mazzette per aver comprato, forse, la propria promozione 8 anni fa.

La scure della campagna contro le mele marce intrapresa da tempo da Xi sembra essersi abbattuta anche su Fan Changlong, 70 anni, da poco dimessosi dalla carica di vice presidente della Commissione militare centrale, principale organo di comando dell’Esercito di Liberazione Popolare. Da dicembre 2017 anche Fan sarebbe indagato per corruzione e come i suoi predecessori, Guo Boxiong e Xu Caihou – il primo condannato all’ergastolo, il secondo morto di cancro in carcere nel marzo 2015 – potrebbe finire in disgrazia per lo scambio di bustarelle. Fan, inoltre, fino allo scorso ottobre, quando si è svolto il 19esimo Congresso del Partito Comunista Cinese, faceva anche parte del Politburo, cuore del processo di decision-making del partito.

Pare che in Cina le promozioni ai vertici delle forze armate fossero un affare vantaggioso, condizionato da tariffe ben precise. Per il grado di maggiore generale, ad esempio, bisognava pagare tra i 5 e i 10 milioni di yuan, vale a dire tra 778 mila e 1,55 milioni di dollari; per la carica di tenente generale, invece, tra i 10 e i 30 milioni.

 

La Grande cerimonia di mobilitazione

Due avvenimenti sono la prova dell’intenzione del presidente Xi Jinping di imporre sull’esercito un drastico giro di vite: la convocazione della Commissione militare centrale il 2 gennaio e l’esercitazione militare multi-forze del giorno successivo. Il 3 gennaio si è svolta, infatti, in 40mila località diverse della Cina la “Grande cerimonia di mobilitazione”, cioè la prima esercitazione globale dell’Esercito di Liberazione Popolare che ha visto impegnati contemporaneamente anche la Marina, l’Aviazione e forze strategiche.

«Chiunque abbia un arma deve essere completamente fedele a Xi e al partito», ha detto al Finacial Times Liu Bojian, ricercatore alla East Asian Institute della National University di Singapore. «L’esercito è la pistola, la polizia è il coltello. E Xi vuole mantenere un controllo personale e centralizzato sia sulla pistola che sul coltello», ha invece affermato Willy Lam, professore presso l’Università Cinese di Hong Kong.

 

La disputa con gli USA nel Mar Cinese Meridionale

Un esercito unito e leale al partito è la prerogativa di Xi per affrontare la crisi nordcoreana. Il dissenso tra le forze armate va estirpato anche alla luce delle recenti turbolenze tra USA e Cina registrate in un altro fronte caldo: il Mar Cinese Meridionale.

In un articolo del 2012 il quotidiano Global Times, vicino al governo di Pechino, aveva scritto: «sarebbe un miracolo se lo scontro non culminasse in un conflitto militare». Dalla scorsa settimana questa eventualità sembra più probabile perché un incrociatore della Marina a stelle e strisce, la nave SS Harper, ha effettuato un pattugliamento a 12 miglia nautiche dall’atollo di Scarborough, una lingua di terra contesa da Cina e Filippine.

Per Washington il passaggio della nave rientra nelle operazioni di routine e nell’ambito delle azioni a sostegno della “libertà di navigazione” (FONOP). La risposta irata di Pechino è arrivata attraverso il portavoce del ministero della Difesa cinese Ren Guoqiang, che ha definito la costruzione di infrastrutture militari nell’area un «diritto sovrano» della Cina. Ren Guoqiang ha anche accusato gli Stati Uniti di «essere intrappolati in una mentalità da Guerra Fredda».

Il Global Times in un editoriale pubblicato nei giorni scorsi ha fornito un quadro più completo dei venti di guerra che spirano su quel tratto di mare: se gli USA bloccheranno l’accesso alle isole del Mar Cinese Meridionale, allora Washington e Pechino dovranno prepararsi a un’escalation militare. L’editoriale è in realtà una risposta alle parole pronunciate dal capo della diplomazia USA Rex Tillerson. Il segretario di Stato USA ha paragonato l’intraprendenza cinese nell’area all’annessione della Crimea da parte della Russia, aggiungendo che l’accesso alle isole non sarà più consentito. Dichiarazioni che a Pechino sono suonate come una minaccia di guerra.

Il Washington Post ha scritto che nel 2018 l’Amministrazione Trump avrà un approccio più duro verso la Cina e verso le sue rivendicazioni su quelle acque.

Le frizioni nell’area non sono certo una novità, ma il passaggio della SS Harper e la reazione burrascosa di Pechino sono forse il segnale di un cambiamento nefasto nelle relazioni bilaterali sino-americane. Non è strano, secondo il governo cinese, che le operazioni siano avvenute proprio a ridosso della diffusione da parte americana della Strategia di sicurezza nazionale 2018, un documento in cui gli ammonimenti alla Cina si sprecano e dove, ancora secondo il portavoce di Pechino Ren Guoqiang, ci sono «irrealistiche insinuazioni di giochi a somma zero».

Il “gioco del pollo” tra cinesi e americani continua visto che Pechino ha appena recapitato a un messaggio chiarissimo all’Amministrazione Trump: «più navi manderete nelle acque contese, più rafforzeremo la nostra presenza lì».

 

Duterte spettatore interessato

Il caso dell’atollo Scarborough è adesso una questione squisitamente americana e cinese, dal momento che il governo filippino sembra aver perso interesse nel rivendicarne la sovranità. Due anni fa un tribunale internazionale aveva rigettato le rivendicazioni cinesi sull’isolotto dando ragione ai filippini.

Rodrigo Duterte, al potere dal 2016, ha tuttavia dimostrato di voler perseguire la strada di un ravvicinamento al gigante asiatico, anche alle spese della vecchia alleanza atlantica. Già al vertice ASEAN dell’anno scorso (il summit tra i Paesi del Sudest Asiatico) il presidente delle Filippine aveva dichiarato di non voler oltrepassare i limiti nei rapporti con Pechino. Il suo portavoce Harry Roque ha liquidato così il passaggio dell’incrociatore SS Harper: «Abbiamo una strategia diversa nel trattare con la Cina. È un problema americano, non più delle Filippine». Il Washington Post lascia l’ultima parola sulla reazione di Duterte a Jay L. Batongbacal, direttore dell’Institute for Maritime Affairs and Law of the Sea dell’Università delle Filippine: «Il silenzio sulle ambizioni cinesi è rischioso perché potrebbe lasciar intendere un’accondiscendenza alle affermazioni di Pechino».