Daniele Maria Barone si è formato all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, all’Harvard Business School e si è specializzato in sicurezza nazionale e anti-terrorismo all’International Institute for Counter-Terrorism (ICT) di Herzliya, in Israele. Prima di dedicarsi alla ricerca nel settore dell’anti-terrorismo, ha lavorato per diversi anni nel digital marketing. I suoi interessi di ricerca sono cyber-jihad, strategie di comunicazione dei gruppi terroristici e metodi di finanziamento al terrorismo. Oggi collabora con diversi centri di ricerca tra cui ITSTIME.

Il tema del finanziamento al terrorismo di matrice islamica è da anni argomento di discussione e di analisi. Tuttavia, il fiume di denaro che alimenta i gruppi terroristici non si arresta. Perché?

Come qualsiasi aspetto legato al terrorismo di matrice islamica, il tema del finanziamento impone una chiave di lettura aperta e multidisciplinare. Le organizzazioni internazionali diramano la loro rete di finanziamenti in un network globale e complesso che si sviluppa attraverso attività apparentemente legittime, collaborazioni con il crimine organizzato, sfruttamento delle materie prime, piccoli reati, contrabbando e donazioni che si rafforza stabilendo legami culturali e ideologici tra gli attivisti. Questo permette alle organizzazioni terroristiche di adattarsi camaleonticamente ai cambiamenti sia a livello internazionale che locale, creando velocemente nuove risorse economiche a volte visibili, a volte talmente celate da non poter avere una reale stima della loro entità. Questa realtà non può essere sintetizzata e contrastata intervenendo militarmente o esclusivamente avvalendosi del sistema finanziario convenzionale. È necessario un approccio internazionale coeso (e privo di ego) tra istituzioni, settore privato e comunità religiose che al momento, purtroppo, non esiste.

Oggi quello che resta dello Stato islamico in Siria e Iraq come finanzia l’acquisto di armi, munizioni e mezzi blindati per difendere gli ultimi territori ancora in suo possesso?

È vero che Daesh ha perso gran parte dei propri territori, ma nei tre anni di occupazione in Iraq e Siria è riuscito ad accumulare una fortuna in denaro contante, oro e opere d’arte. Inoltre, la perdita delle sue roccaforti ha privato l’organizzazione terroristica dei suoi introiti ordinari, ma l’ha anche liberata dall’ingente mole di costi fissi legati alla gestione dell’auto-proclamato Califfato. Oltre al capitale a disposizione, Daesh ha riciclato, depositato e reinvestito parte dei suoi precedenti guadagni prevalentemente in Medio Oriente in conti bancari e business legali (attività commerciali, immobili, alberghi, rivendite di automobili, etc) e ha proseguito le sue attività illegali relative al contrabbando di opere d’arte, rapimenti, riscatti e donazioni. Con le risorse economiche a sua disposizione, si stima che Daesh sia in grado non solo di acquistare armamenti, ma anche di pagare i propri membri e le loro famiglie, finanziare attentati terroristici o insurrezioni e risanare la sua macchina propagandistica.

Recentemente si è parlato molto della possibilità che alcuni gruppi salafiti violenti si finanzino con le criptovalute. Si tratta di una fake news o c’è un fondamento di verità?

Non è solo propaganda ma più che una brutta notizia lo definirei un cattivo presagio. I casi documentati sino ad oggi mostrano che questa tipologia di finanziamento al terrorismo islamico è in una fase sperimentale: gli episodi riguardano presumibilmente piccoli gruppi o individui e, per ora, non sembrano collegati direttamente a organizzazioni internazionali come Al Qaeda o Stato Islamico. Va sottolineato che al momento esistono due fattori, entrambi legati all’eccessiva oscillazione del valore delle valute digitali, che apparentemente stanno ancora frenando i gruppi jihadisti internazionali dal promuovere pubblicamente l’utilizzo di moderni mezzi di finanziamento. Il primo è di natura economica: le criptovalute potrebbero essere utilizzate per spostare piccole quantità di denaro velocemente ma il loro valore instabile non le rendono ancora un mezzo totalmente affidabile per conservare o trasferire grandi quantità di denaro. Il secondo, legato all’accettazione ideologica, dipende dal dibattito in corso tra leader e studiosi musulmani per chiarire se l’utilizzo delle criptovalute sia conforme alla Sharia o sia da considerare alla stregua del gioco d’azzardo, dati i cambiamenti imprevedibili del loro valore. Superati questi ostacoli di natura gestionale e religiosa, con il placet “istituzionale” di un’organizzazione terroristica internazionale, si diffonderebbero velocemente le competenze tecniche necessarie per rendere le valute digitali un prodotto ampiamente diffuso anche tra soggetti radicalizzati.

Alcuni esperti del settore sostengono che per chi delinque non c’è nulla che valga quanto il denaro contante. Che ne pensa?

Quest’affermazione è parzialmente vera. Le transazioni in denaro contante sono difficili da tracciare, ma i mezzi resi disponibili dalla finanza moderna vertono sempre più verso la realizzazione di prodotti che garantiscano la privacy (e talvolta l’anonimato) degli utenti e delle loro operazioni finanziarie. Il progresso portato dal settore privato in ambito economico è spesso più veloce delle istituzioni e dei legislatori, lasciando che molti prodotti innovativi operino per un lungo range temporale in una zona grigia, poco decifrabile e addirittura non perseguibile legalmente. Il denaro resta una sicurezza per i criminali, ma la finanza moderna è più veloce, più globale e più sicura. Queste qualità rendono le criptovalute un prodotto mainstream sia tra la piccola criminalità che nel crimine organizzato.

Quali criptovalute sarebbero ritenute “interessanti” dai gruppi jihadisti?

Bitcoin al momento è la criptovaluta più utilizzata, data la sua diffusione anche nei mercati legali e la semplicità del suo utilizzo. Malgrado queste qualità, i bitcoin non garantiscono l’anonimato assoluto degli utenti. Infatti, alcune campagne di crowdfunding jihadiste stanno già rendendo disponibili donazioni via Zcasch o Monero. Molto più recenti e meno utilizzate rispetto ai bitcoin, sono sviluppate principalmente per garantire la privacy, celando oltre all’identità degli utenti anche l’entità delle transazioni e quindi fornendo una limitatissima quantità di dati per le investigazioni. Gli attivisti che hanno utilizzato le criptovalute appartengono tanto ad Al Qaeda quanto a ISIS.

A quanto ammonterebbero questi crypto-finanziamenti e da quanto tempo arrivano nelle casse dei jihadisti?

Le transazioni accertate (tra affiliati di Daesh e Al Qaeda), ad oggi, sono in tutto inferiori a un milione di dollari. Il primo caso risale al 2012 e, da allora, le singole campagne di donazione documentate fino ad ora hanno ricevuto da un minimo di 50 dollari a un massimo di 400.000 dollari.

Con quali modalità avviene l’acquisto delle criptovalute? Può descriverci i passaggi successivi?

L’acquisto di criptovalute può avvenire in forma completamente anonima, complice l’assenza di un chiaro quadro legale che regoli e gestisca il fenomeno, lasciando agli utenti la libertà di acquistare monete virtuali senza fornire nessun documento che li possa identificare. Ad esempio, le criptovalute possono essere acquistate in forma anonima su una piattaforma di exchange soldi-critpovalute, attraverso un Bitcoin ATM (un bancomat per cambiare soldi in bitcoin) o tramite un peer-to-peer exchange in cui il trasferimento di monete virtuali avviene online mentre il pagamento in denaro avviene separatamente tra venditore e acquirente (anche di persona, in contanti). Successivamente basta trasferire i fondi all’indirizzo del portafoglio digitale desiderato. L’individuo che ha ricevuto la transazione può smistare il ricavato in diversi portafogli (i money-mule digitali) e prelevare il denaro con uno dei metodi descritti precedentemente.

È possibile comprare armi e munizioni con i Bitcoin?

Sul deep web, in teoria, sì. Esistono siti web che vendono armi e altro materiale illegale che si presentano esattamente come i più noti Amazon o Ebay. Forniscono recensioni degli utenti sui prodotti in vetrina, diversi metodi di pagamento (bitcoin in primis) e tempi di spedizione. Questi siti web vengono costantemente monitorizzati o bloccati dalle autorità e dall’intelligence ma è un fenomeno difficile da controllare. Per ogni grande e-commerce illegale chiuso, ne vengono creati altri dieci più piccoli.

C’è un modo per fermare queste forme di finanziamento al terrorismo?

L’unico modo per controllarlo è una stretta cooperazione tra istituzioni e settore privato a livello internazionale. Questo lavoro di squadra dovrebbe essere volto a introdurre procedure per il riconoscimento dell’identità sia di chi acquista criptovalute che dei possessori di un portafoglio virtuale e maggiore accesso ai dati sulla provenienza dei siti presenti sul deep web e sull’IP degli utenti. In questo modo, oltre a creare un deterrente per arginare il fenomeno si agevolerebbero le attività di investigazione.

In che modo la Blockchain potrà aiutare l’intelligence a contrastare il terrorismo?

Parlando di criptovalute, la Blockchain consente di avere uno storico chiaro, pubblico e immutabile dell’attività finanziaria di un individuo. Se questa tecnologia venisse applicata a tutte le azioni del nostro quotidiano, creerebbe un’identità online che lascia un’impronta indelebile di qualsiasi nostra azione. Ciò significherebbe che l’intelligence, indagando su una singola attività sospetta, avrebbe accesso all’intera carriera criminale di tutti i soggetti connessi a essa.