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Soltanto pochi giorni fa nel suo discorso di capodanno Kim Jong Un, il “Grande Leader” della Corea del Nord, il “principe ereditario” giunto al potere nel 2011 dopo il nonno Kim Il Sung e il padre Kim Jong Il, ha lanciato al mondo un duplice ambiguo messaggio. Da un lato ha sottolineato che ormai il suo Paese deve essere considerato una potenza nucleare a tutti gli effetti; dall’altro ha manifestato la disponibilità della Corea del Nord a partecipare con una sua delegazione di atleti ai Giochi Olimpici Invernali che si terranno a Pyeongchang, nella Corea del Sud, dal prossimo 9 febbraio.

Mentre il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha colto solo la parte minacciosa del messaggio di Kim, quella sulla capacità nucleare di Pyongyang, e ha bruscamente replicato di avere un «pulsante nucleare più grosso» rispetto a quello in possesso di del dittatore nordcoreano, il governo di Seoul ha immediatamente colto l’apertura al dialogo contenuta nella disponibilità nordcoreana a prendere parte ai Giochi e ha accettato di avviare colloqui su un argomento molto più delicato di quanto possa sembrare a prima vista.

Infatti, il regime nordcoreano ha storicamente avuto un rapporto molto complesso con le Olimpiadi considerandole parte integrante della scacchiera geopolitica e della sua strategia nell’arena internazionale. Solo nel 1972, dopo l’avvio di una prima fase di distensione tra Cina e Stati Uniti, Pyongyang ha iniziato a far partecipare suoi atleti ai Giochi Olimpici, salvo poi rifiutarsi di prendere parte agli appuntamenti di Los Angeles nel 1984 e di Seoul nel 1988. In quest’ultimo caso il boicottaggio si spinse fino all’esecuzione di un brutale attentato contro un aereo della Korean Airlines, esploso in aria per una bomba collocata a bordo da agenti segreti nordcoreani. L’azione del 1987 provocò la morte di 115 persone e, secondo la testimonianza di Kim Yun Hui, un’agente nordcoreana pentita, mirava a «creare il caos nella Corea del Sud» e a far saltare le Olimpiadi.

Il boicottaggio nordcoreano delle Olimpiadi di Seoul del 1988 si spinse fino all’esecuzione di un brutale attentato contro un aereo della Korean Airlines: 115 morti

Nella continua altalena tra guerra e pace che caratterizza i rapporti tra le due Coree – dal 1953 tecnicamente in stato di “armistizio” – dopo l’ultima partecipazione ai Giochi Olimpici Invernali del 2006, quando gli atleti del Nord e del Sud sfilarono insieme sotto un’unica bandiera, il regime di Pyongyang ha smesso di inviare una propria rappresentanza alle Olimpiadi, considerate un «passatempo borghese e decadente» e una vetrina dell’«imperialismo americano».

Ora, dopo che per tutto il 2017 Kim Yong Un ha tenuto il mondo in ansia con un susseguirsi di lanci di missili balistici sempre più potenti e dimostrando di aver fatto progressi sostanziali in campo nucleare, il bizzarro e bizzoso leader nordcoreano ha inviato al posto di confine di Panmunjom – dove da 65 anni rappresentanze delle Nazioni Unite e dei “fratelli nemici” della Corea del Sud tentano inutilmente di poggiare le basi per un processo di pace – una delegazione di alto livello per esplorare con i sudcoreani la possibilità di prendere parte ai prossimi Giochi.

Stando ai primi resoconti, sembra che i colloqui di Panmunjom siano andati bene e probabilmente alle prossime Olimpiadi Invernali vedremo la partecipazione simbolica di atleti della Corea del Nord. Questo ha indotto gli osservatori più ottimisti a paragonare l’incontro bilaterale dell’8 gennaio sul confine del 38° parallelo tra le due delegazioni come una replica della “diplomazia del ping pong” del 1972 che vide, in piena guerra del Vietnam, il riavvicinamento tra Cina e Stati Uniti e l’apertura di relazioni diplomatiche tra due grandi potenze che rifiutavano l’una di riconoscere l’esistenza dell’altra.

La cosiddetta “diplomazia del ping pong” nacque da una mossa a sorpresa della leadership cinese, che invitò la squadra nazionale americana del tennis da tavolo a visitare la Cina per incontrare gli atleti e i campioni di quello che nella Repubblica Popolare era, ed è tutt’oggi, lo sport nazionale. L’iniziativa venne ben compresa dal Dipartimento di Stato americano, allora dominato dalla figura di Henry Kissinger, il quale colse l’occasione al volo per attivare un dialogo dietro le quinte con i cinesi che portò alla storica visita del presidente Richard Nixon in Cina nel febbraio del 1972 e all’apertura di relazioni diplomatiche tra i due Paesi.

La “diplomazia del ping pong” vide, in piena guerra del Vietnam, il riavvicinamento tra Cina e Stati Uniti e l’apertura di relazioni diplomatiche tra le due grandi potenze

La realtà oggi, forse, è diversa. La mossa di Kim Yong Un potrebbe essere il sintomo più che di un’apertura verso Washington, dell’accresciuta sicurezza del giovane leader nordcoreano. Grazie al suo nuovo status di capo di una potenza nucleare, Kim ritiene in pratica di aver stipulato con il resto del mondo una “polizza sulla vita” che gli assicura, almeno nelle sue riposte speranze, di non subire attacchi a sorpresa da parte dei vicini del Sud e dei loro alleati americani.

Da parte di Seoul, l’apertura di Kim è stata benvenuta perché abbassa la tensione tra i due Paesi e carica di importanza e di significati simbolici il prossimo appuntamento olimpico. Probabilmente, nelle prossime settimane, potremmo assistere a una diminuzione delle tensioni nella penisola sudcoreana, ma la parentesi olimpica, pur densa di aspetti positivi, difficilmente renderà più realistiche le ipotesi di una pace stabile in Corea, anche perché nessuno dei contendenti – Seoul e Washington da una parte e Pyongyang dall’altra – appare disposto a fare quelle enormi concessioni politiche ed economiche che da sole sono il presupposto della possibile, ma improbabile, riunificazione della penisola.

I protagonisti del gioco, d’altronde, sembrano non possedere quella lungimiranza che trasformò la “diplomazia del ping pong” in una delle più importanti azioni di geopolitica del XX secolo. Pertanto, il paragone tra ciò che accadde allora e quanto a cui stiamo assistendo in questi giorni è facile e scontato, ma non tiene conto della fondamentale differenza tra la statura politica e intellettuale dei personaggi coinvolti. Ieri leader controversi ma del calibro di Mao Zedong e Zou Enlai da una parte, e di Richard Nixon ed Henry Kissinger dall’altra. Oggi, due capi popolo che dibattono pubblicamente su chi ce l’ha «più grosso»: il «pulsante nucleare», s’intende.