Negli ultimi mesi Stati Uniti e Cina si sono fronteggiate a colpi di dazi. L’accordo recentemente siglato ha avuto vita breve di fronte alla volontà degli USA di mettere pressione sul fronte commerciale sulla Cina, attore scarsamente rispettoso delle regole dell’economia internazionale.

 

Botta e risposta di dazi e fragile tregua

Negli ultimi mesi le due potenze si stanno misurando in una guerra commerciale, fatta di un serrato botta e risposta di dazi. Nel 2017 Washington aveva avviato due indagini preparatorie: una sui furti da parte della Cina di proprietà intellettuale e un’altra sul rischio per la sicurezza nazionale rappresentato dalle importazioni di acciaio e alluminio. Nello scorso marzo ha avuto l’inizio l’escalation, cominciata con la nota decisione di imporre dazi su acciaio e alluminio, dai quali erano stati temporaneamente esentati gli alleati. Il bersaglio era per il momento la sola Cina, che il 2 aprile ha replicato con dazi su beni statunitensi. Nei due giorni successivi, i due Governi si sono minacciati a vicenda di imporre tariffe per 50 miliardi di dollari.

 

L’accordo commerciale

Il 19 maggio le due parti hanno siglato un accordo, nel quale la Cina prometteva di collaborare a ridurre in maniera sostanziosa il surplus commerciale che ha con gli USA aumentando i suoi acquisti di beni e servizi statunitensi. Secondo Washington la promessa prevedeva acquisti pari a 200 miliardi di dollari per anno, ma Pechino ha smentito e in ogni caso non c’erano precise disposizioni su come la Cina avrebbe dovuto procedere in tal senso.

Il problema dell’accordo era proprio questo: si trattava di un patto poco impegnativo, con uno scambio di impegni imprecisati e peraltro inconcepibili – per esempio, Pechino avrebbe dovuto comprare ben 600 Boeing dagli USA per raggiungere la quota dei 200 miliardi. Per di più, non erano previsti chiari obblighi per la Cina sul tema del rispetto della proprietà intellettuale, che era peraltro uno dei principali motivi dietro alle mosse protezionistiche della Casa Bianca. L’accordo, sottoposto a molteplici critiche da parte dei falchi di Washington, non poteva durare e si è rivelato una tregua in mezzo alle ostilità commerciali, o, a voler essere più positivi, come punto di inizio o come quadro per eventuali future trattative. Le ostilità sono infatti riprese a giugno, quando Trump ha fissato nuove tariffe, che hanno incontrato la rapida rappresaglia di Pechino, e ne ha minacciate altre per un valore di ben 200 miliardi.

 

Le ragioni di Trump

Dal punto di vista di economico, le politiche protezionistiche hanno numerose controindicazioni, persino se prese contro un rivale politico ed economico come la Cina. Innanzitutto i dazi tendono a far aumentare i prezzi dei beni importati, quindi, per esempio, se l’acciaio e l’alluminio diventeranno più costosi, cresceranno i costi di produzione di beni quali le auto, rendendoli più cari: ne verrebbero dunque danneggiati sia gli imprenditori che i lavoratori e i consumatori di questo settore – similmente a quanto accaduto con Bush nel 2002. Occorre però precisare che solo il 2% dell’acciaio che gli USA importano viene dalla Cina.

Inoltre vanno considerate tutte quelle misure di rappresaglia che la Cina sta prendendo e continuerà a prendere. Infatti Pechino sta abilmente cercando di colpire gli USA sul punto più sensibile, ovvero imponendo dazi sui beni agricoli e dell’allevamento. Peraltro, in generale, sono proprio questi i settori in cui Washington solitamente registra surplus commerciali con gli altri Paesi, e sono quindi queste le categorie di lavoratori che verrebbero maggiormente danneggiate dalle mosse protezionistiche della Casa Bianca – in quanto ogni Stato colpito dai dazi di Trump potrebbe rivalersi su questo tipo di beni.

Il rischio è quindi penalizzare proprio quella parte rurale e manifatturiera del Paese che Trump ha promesso di tutelare e dalla quale riceve entusiastico sostegno – è del resto questa la grande ambiguità nelle idee protezionistiche del presidente. La Cina, poi, è il maggior creditore estero degli USA, e questa è un’arma aggiuntiva dalla sua parte, sebbene probabilmente si limiterà a minacciare di vendere i titoli di debito statunitense, piuttosto che a farlo davvero.

A ogni modo, l’Amministrazione Trump ha centrato il punto: la Cina non è un giocatore corretto nella partita del commercio globale. Questo per almeno tre ragioni: i massicci furti di proprietà intellettuale, calcolati dai 225 ai 600 miliardi di dollari ogni anno; il fatto che imponga alle imprese straniere, per poter vendere in Cina, di stipulare contratti di joint venture con imprese locali – e non di rado è con questa modalità che vengono effettuati i furti di proprietà intellettuale; i consistenti sussidi alle sue imprese, una pratica che distorce la concorrenza. Tutto ciò si ricollega al fatto che la Cina non è un’economia di mercato.

Ci sono quindi diverse ragioni dietro ai dazi di Trump. Per gli USA la questione starà nel trovare le risposte più appropriate, che non causino una guerra commerciale di lunga durata e che non danneggino settori sensibili dell’economia nazionale. Qualsiasi misura sul campo economico-commerciale non potrà inoltre prescindere da considerazioni di politica estera.

di Antonio Pilati – Il Caffè Geopolitico