«Trump è colpevole e dovrebbe andare in carcere per tradimento» ha scritto su Facebook James Hodgkinson il 12 giugno 2017, poco prima di recarsi presso il campo di baseball di Alexandria, Virginia, e aprire il fuoco contro un gruppo di deputati repubblicani che partecipavano a una partita di beneficenza. Steve Scalise, membro della leadership repubblicana alla Camera, per poco non ci ha lasciato la pelle. Hodgkinson, invece, è stato freddato sul posto dalla polizia. La sua vendetta contro il presidente è così finita tragicamente.
È andata meglio a Edgar Maddison Welch, ventottenne e padre di due figlie, partito da una cittadina del North Carolina per raggiungere Washington e mettere in atto quella che considerava una battaglia di giustizia sociale. Raggiunta la pizzeria Comet Ping Pong, ha svuotato il caricatore del suo fucile semiautomatico contro il locale dove Hillary Clinton avrebbe gestito un centro di sfruttamento della prostituzione minorile per sollazzare deputati democratici. Arrestato, solo dopo mesi in cella ha compreso che la molla che lo aveva fatto scattare era frutto di una fake news. E che la Clinton, con tutti i difetti che ha, di certo non è una maitresse di bordelli per pedofili.
Senza scomodare la “macchina del fango” italiana, questi fatti apparentemente tra loro disgiunti raccontano a sufficienza quanto pesante sia il clima attorno alla politica e quanto essa sia in corto circuito con i media. Ma ci dice anche quanto distorta sia la percezione della realtà da parte di chi legge notizie, o supposte tali, divulgate dai media senza troppi controlli. La proliferazione di notizie false, o meglio ancora “farlocche”, è diventato uno dei mali dei nostri tempi. Di difficile gestione, le fake news rappresentano un’involuzione della storica propaganda, perché il sistema che le genera non è né codificato né governato in alcun modo da nessuno. Nell’era del caos tecnologico e della liberazione dalle convenzioni, aver messo in mano a chiunque la possibilità di distorcere la verità si è rivelato alquanto pericoloso, e anticamera dell’anarchia.
Le fake news rappresentano un’involuzione della storica propaganda, perché il sistema che le genera non è né codificato né governato in alcun modo da nessuno
Non potendo più risalire alla fonte originaria – ci vorrebbero intere redazioni d’informatici e/o di hacker – il falso si confonde sempre più col vero e la credibilità di una notizia svanisce come valore e come orizzonte informativo. In sua sostituzione, c’è una congerie di nuovi vati e tuttologi che sfidano la scienza e la conoscenza in nome della vanità e della visibilità. Perché l’obiettivo non è più diffondere la cultura né ottenere riconoscimenti in cambio di opinioni ragionate. Quello che si vuole ottenere sono semplici like o click utili a generare un consenso virtuale.
La comunicazione, che ha iniziato a soffrire di credibilità a partire proprio dalla proliferazione dei social network e delle “notizie fai da te”, non ha risposte da dare al fenomeno né sa porre un argine a questa deriva. Ormai non si tratta più dell’annosa battaglia tra informazione e controinformazione, ma del proliferare di strumenti pensati al fine di screditare terze parti capaci di generare un tornaconto che, sempre più spesso, è di tipo economico e non esclusivamente politico. Cosicché non è neanche più corretto parlare di scala sociale, ma di scala social.
Da un lato, c’è nei fruitori delle fake news l’alibi dell’ingenuità e dell’ignoranza, sempre più diffuse. Dall’altro, c’è l’ostinazione a non voler accettare la realtà, quando questa non piace. Per citare Umberto Eco «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».
Un’invasione pericolosa, capace persino di destabilizzare governi. Si prenda il caso Russiagate, ovvero la teoria secondo cui Trump e il suo staff si sarebbero resi colpevoli di contatti impropri con il Cremlino, nell’ambito dell’azione politica espressa durante la campagna elettorale e poi proseguita con l’insediamento al governo. Questa congettura, che finora non poggia su alcuna prova, ha preso sempre più i connotati di una cieca caccia alle streghe e non invece di una corretta inchiesta giornalistica o di un’indagine federale. Si preferisce sbattere il mostro in prima pagina, condannandolo a priori per qualcosa che, tuttavia, dev’essere ancora provato.
La sola prurigine di poche malelingue oggi può provocare un effetto valanga che neanche la magistratura o le altre istituzioni sanno più controllare. In sintesi, alla cultura della verità oggi si è tragicamente sostituita una cultura dell’odio. Che si alimenta di bugie e d’imbecilli che preferiscono osservare la vita attraverso Facebook invece che con i propri occhi.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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