Fa notizia in questi giorni il cambio di casacca di Federico Rampini, che dopo anni da corrispondente dall’estero per il quotidiano La Repubblica passa al Corriere della Sera di Urbano Cairo. Paesi Edizioni ha avuto il piacere di ospitare in uno dei suoi libri, Yes, we Trump! firmato da Luca Marfé, un contributo di uno dei giornalisti italiani più conosciuti oltre i confini nazionali. Lo riproponiamo su Babilon Magazine.

Nei mesi che precedettero lo shock elettorale del 2016 ero nel Midwest a sondare la classe operaia, le sue paure, il suo disagio. Non mentirò come tanti che a posteriori si vantano di aver previsto per tempo la vittoria di Donald Trump. Non ho virtù profetiche, però in un mio libro intitolato Il tradimento e uscito due mesi prima del voto, erano chiare tutte le ragioni per cui tanti operai si sentivano beffati dalla sinistra. Anzitutto, il libero scambio e le politiche favorevoli all’immigrazione, due capisaldi dei governi progressisti da Bill Clinton in poi. Una sinistra troppo vicina ai top manager delle multinazionali, ai banchieri di Wall Street, ai padroni della Rete della Silicon Valley, aveva fatto scelte che danneggiavano i lavoratori.

Gli operai a cui era stato promesso il benessere grazie alla globalizzazione, erano stati impoveriti dalla concorrenza della Cina, dalle delocalizzazioni di fabbriche, dalla riduzione dei loro diritti sindacali e dei loro salari. L’immigrazione di forza lavoro dai Paesi emergenti, come tale esposta ad accettare condizioni degradanti, aveva ulteriormente ridotto il potere contrattuale della classe operaia tradizionale. Gli operai del Midwest che avevano votato per due volte Barack Obama, e nel novembre 2016 preferirono Trump a Hillary Clinton, non erano degli idioti o dei razzisti, come spesso li descriveva una sinistra radical chic. Votavano così perché guidati da una visione dei propri interessi economici, oltre che da una certa idea dell’America.

Tornai a frequentarli e a intervistarli nei primi mesi della presidenza Trump insieme a Luca Marfé. Con Luca realizzammo una serie di reportage nell’area di Detroit, fra i metalmeccanici dell’industria automobilistica, che finirono su La Repubblica in varie versioni. Non c’era in quei reportage una tesi precostituita da dimostrare. C’erano dei cittadini in carne e ossa, dei lavoratori con una coscienza del proprio declino economico, sociale, e di status. Alcuni di loro dicevano: «Non sono io ad aver voltato le spalle al Partito Democratico, sono i democratici che hanno smesso di occuparsi di me». Hillary Clinton fece tanti errori, ma pagò per delle scelte che la sinistra americana e occidentale aveva cominciato a fare prima di lei. I progressisti avevano fatto di tutto per spingere pezzi di classe operaia nelle braccia della destra, e c’erano riusciti.

Quattro anni sono sempre tanti, ma in questo caso sembrano quasi un’era geologica. La presidenza Trump ha avuto l’effetto di un ciclone nell’America e nel mondo. È stata una presidenza spesso incompresa, e spero che questo libro aiuti a chiarire tanti equivoci, a fare pulizia di stereotipi e semplificazioni. Io resto affezionato a un giudizio di Henry Kissinger, l’ultranovantenne ex segretario di Stato, che riassumo così: Trump è uno di quei personaggi che appaiono nella Storia come segnali che un’epoca si è chiusa. È questo, io credo, l’approccio giusto per analizzarlo. L’individuo Trump, lo trovo piuttosto ripugnante: bugiardo e disonesto, egomaniaco e narcisista, superficiale e ignorante, impelagato nei conflitti d’interessi, incapace di distinguere il proprio tornaconto personale dal bene della nazione. Non ha mai tentato di ricucire le lacerazioni profonde della società americana. Non ha cercato di trasformarsi nel presidente di tutti. Si è sforzato di mantenere intatta e compatta quella metà (scarsa) dell’America che lo aveva votato. Tutto il male che penso di lui come persona non deve, però, farmi velo nel giudicare le sue azioni.

A Trump bisogna riconoscere come minimo un merito: ha mantenuto, o si è sforzato di mantenere, quasi tutte le sue promesse elettorali. Anche quelle che sembravano inverosimili. Ha affrontato la Cina con durezza per riequilibrare un rapporto economico bilaterale che era insostenibile. C’è riuscito solo in minima parte, anche perché non ha mai saputo coalizzare con una strategia delle alleanze un fronte più ampio (Europa, Giappone, Corea del Sud); però, ha accelerato una presa di coscienza sulla minaccia cinese che va ben al di là della dimensione commerciale. Ha ridotto la pressione fiscale, soprattutto a vantaggio delle imprese, e per il primo triennio questo è stato probabilmente uno dei fattori per cui la crescita economica americana si è prolungata fino a una durata record. Sull’immigrazione, oltre a mantenere le promesse, Trump si è situato in una linea ampiamente condivisa da governi centristi o progressisti: dal Canada alla Francia, dalla Danimarca alla Germania. È una linea che tende a recuperare una capacità di governo dei flussi migratori, senza la quale l’immigrazione alimenta insicurezza tra i cittadini. L’idea di Trump di selezionare gli immigrati in base al loro talento e competenza professionale, è il criterio che guida le politiche migratorie in Canada e in Svezia, di recente anche in Germania. Lui ci ha aggiunto il Muro col Messico, ma anche quello è un «simbolo» che ha eccitato gli animi generando confusione. Il Muro col Messico esisteva già, i primi tratti furono costruiti sotto la presidenza del democratico Bill Clinton.

Il Muro di Trump è stato un espediente efficace per aizzare l’ala più radicale della sinistra, portandola ad accentuare messaggi del tipo: abbattiamo tutti i muri e tutte le frontiere, i poveri della terra vengano a noi. Quando le frange della sinistra «no border» hanno dominato la scena, Trump è riuscito a salvare la maggioranza repubblicana al Senato (elezioni legislative di mid-term, novembre 2018). L’idea di abolire la polizia di frontiera promossa dalla frangia ultrà di Alexandria Ocasio-Cortez, e fatta propria da Bernie Sanders, è parsa allucinante anche agli elettori moderati del Partito Democratico. Gli stessi profughi in cerca di asilo negli Stati Uniti, credono fortemente nel valore della frontiera, della polizia, dello Stato di diritto: vogliono stare dal lato giusto del confine, dove vigono la legge e l’ordine, dove non comanda il terrore dei narcos. Trump ha questo dono innato o capacità istintiva: con le sue provocazioni riesce a estrarre dalla sinistra la sua versione peggiore; attira l’avversario nel tranello. Il suo sovranismo, nazionalismo, isolazionismo, sono stati bollati in Europa come le cause del disordine mondiale. La stessa sinistra europea che per decenni aveva manifestato nelle piazze al grido di «Yankee Go Home», ha accusato gli americani di andarsene dal Medio Oriente abbandonando interi popoli al loro destino. Anche su questo gli equivoci sono stati enormi.

Trump è stato inizialmente scambiato per un guerrafondaio, mentre è un militarista isolazionista, che si riallaccia a un’antica tradizione della destra americana, quella che si vuole arroccare in casa propria e non vuole mischiarsi nelle contese altrui. Peraltro, l’isolazionismo è anche una reazione alla nuova geografia globale dei rapporti di forze. Finita quella fase unipolare – dalla dissoluzione dell’Unione sovietica all’11 settembre – in cui l’America godeva di una supremazia incontrastata, si è infranta anche l’illusione che una Pax Americana potesse raddrizzare i torti dell’umanità e garantire un mondo migliore. Con una Cina sempre più ricca e aggressiva, con degli imperi antichi che rialzano la testa (Russia, Turchia, Persia, Arabia, India), la sicurezza degli Stati Uniti richiede un realistico riesame della presenza militare all’estero, della geometria delle alleanze, dei rischi di eccessiva dilatazione della spesa per la difesa. Scivoliamo velocemente verso un bipolarismo imperfetto, dove la nuova guerra fredda America-Cina si accompagna al riemergere di sfere d’influenza regionali, rivalità fra medie potenze. Trump è stato un segnale indicatore di un cambiamento, come dice Kissinger, ma il cambiamento del paradigma mondiale era cominciato prima di lui.

L’ultima fase della presidenza Trump si sta svolgendo mentre scrivo, segnata da due shock che possono cambiarne profondamente il segno. Da un lato, il Coronavirus. Dall’altro, i segnali premonitori di una crisi economica. L’impatto sulle chance di rielezione del presidente a priori sembra negativo. È vero che il Coronavirus può contribuire a rafforzare una narrazione «anti-globalista», e di sicuro rivaluta l’importanza dei confini nazionali. Però, una pandemia esige uno Stato efficiente, una sanità avanzata, e una regìa molto competente da parte del governo: l’America non ha nessuno di questi ingredienti. Se la sinistra si compatta attorno a un candidato moderato come Joe Biden, può capitalizzare una domanda diffusa: in un’emergenza cresce il bisogno di avere dei leader collaudati, rispettosi della scienza, decisi a mettere lo Stato al servizio della collettività. Una crisi economica – le cui concause stavano maturando da tempo – può togliere a Donald Trump uno degli argomenti forti per la sua rielezione. Comunque vada il 3 novembre 2020, l’errore da non fare è pensare che nel dopo-Trump tutto possa tornare come prima, che la sua presidenza si possa considerare una parentesi mostruosa, e che la sua uscita di scena possa riportarci là dove eravamo nel novembre 2016.

Federico Rampini
Prefazione al libro Yes, we Trump!
di Luca Marfé