di Lucio Caracciolo
direttore Limes

Geopolitica è termine di recentissima legittimazione nel discorso pubblico italiano. Diffuso all’inizio del secolo scorso soprattutto in ambito germanico, come evoluzione dinamica della Politische Geographie, il lemma Geopolitik, declinato in geopolitics, géopolitique, geopolitica e quant’altre diramazioni linguistiche, ebbe la sua massima fioritura negli anni Venti e Trenta del Novecento. A testimoniare la sua natura utilitaristica, più o meno mascherata da scientifica, sta la Zeitschrift für Geopolitik, fondata nel 1924. Il suo massimo esponente, Karl Haushofer, fu il portabandiera del revisionismo anti-versagliese tedesco, poi virato da Adolf Hitler in concezione razzistica della storia di cui il nazismo fu catastrofica quanto antigeopolitica espressione.

La Geopolitik contribuì ad ispirare quel gruppo di politici e intellettuali, soprattutto geografi, che negli anni Trenta si attribuì il compito di tracciare la geostrategia dell’imperialismo italiano vagheggiato da Mussolini. Con quell’inevitabile tocco di volontarismo che la debolezza del soggetto Italia implicava, accompagnato dall’italica propensione all’abbellimento retorico di progetti palesemente superiori al proprio potenziale. Ne fu simbolo, dalla modesta incidenza nella prassi imperiale fascista, la rivista Geopolitica patrocinata da Bottai e diretta, fra 1939 e 1942, dai geografi Massi e Roletto, di scuola triestina.

L’altrettanto catastrofica liquidazione del nazismo e del fascismo comportò la demonizzazione della Geopolitik nel tempo della guerra fredda. Bipolarismo dello status quo, quindi vocazionalmente avverso al dinamismo della geopolitica. Alla sua radice fondamentalmente sovversiva – nel senso tecnico del termine. Il sovrappiù di ideologia di cui quell’equilibrio quasi perfetto necessitava, miscelato con l’economicismo di scuola marxista e con il moralismo americano (Impero del Bene contro Impero del Male), impediva di descrivere quel poco di geopolitica che comunque si praticava, da entrambe le parti, in un contesto che costitutivamente la denegava.

Ci vollero, intorno agli anni Settanta, i primi conflitti all’interno dei blocchi ideologici – dalla guerra di confine sino-sovietica al conflitto per il delta del Mekong fra Cambogia e Vietnam, dunque entro coordinate che si pretendevano culturalmente omologhe (marxiste) – per sbloccare l’impasse. A partire dalla Francia, che negli anni Ottanta e Novanta si affermò patria di una nuova géopolitique. Capace di influire sulla rinascita della disciplina in Italia e in altre nazioni non solo europee.

Non però in Germania, dove la Geopolitik è stata boicottata fino all’inizio di questo secolo, e ancora adesso incontra obiezioni di principio – geoculturali. Negli Stati Uniti di geopolitics ci si è continuati ad occupare nei laboratori strategici e – in versione alquanto anodina, quasi branca minore della geografia – nelle università. Però tutti sappiamo che la geopolitica in quanto arte analitica dei conflitti e artigianato della potenza è consustanziale alla storia dell’uomo da quando esistiamo in comunità più o meno aggregate.

Dalla prefazione al libro
La rosa geopolitica
di Mirko Mussetti