Sino a che era in corso il conflitto siro-iracheno, nessuno credeva che l’annosa questione israelo-palestinese potesse tornare al centro della politica mediorientale. Ma gli ultimi sviluppi, inclusa la possibilità che la Casa Bianca annunci ufficialmente il trasloco dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme (riconoscendo di fatto quest’ultima come capitale dello Stato di Israele), hanno reso tale possibilità più concreta.

Non solo. Secondo indiscrezioni del New York Times confermate da più fonti – tra cui membri di Hamas, Fatah e altri funzionari palestinesi e libanesi – esiste un piano preciso per la definizione di nuovi confini per la Palestina e l’elevazione di Gerusalemme a capitale esclusiva degli israeliani, che è già stato presentato ai diretti interessati. Prova ne siano le recenti (preoccupate) dichiarazioni provenienti da Giordania e Francia, che scongiurano Washington dal dare seguito allo spostamento dell’ambasciata, in quanto preludio del nuovo assetto territoriale.

Tuttavia, il progetto sarebbe ormai in fase avanzata per diretta volontà dell’Arabia Saudita, dove non a caso nei mesi scorsi si sono svolte lunghe ambasciate e sono intercorsi colloqui serrati che hanno avuto come principali interpreti politici due giovani rampanti, il principe ereditario Mohammed Bin Salman della casa regnante saudita e Jared Kushner, consigliere del presidente degli Stati Uniti nonché suo genero. I due, oltre a condividere l’inesperienza dei trent’anni e ambizioni da futuri leader, sarebbero stati autorizzati dai rispettivi governi a sondare il terreno presso il leader di Al Fatah Mahmoud Abbas e il premier israeliano Netanyahu, circa la convenienza e le possibili tempistiche per l’attuazione del piano.

 

Cosa prevede il piano

 

Il quale prevede, sempre secondo le indiscrezioni, che i palestinesi ottengano uno stato proprio, ma solo parti non contigue della Cisgiordania e una sovranità limitata sul proprio territorio. La stragrande maggioranza degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, invece, rimarrebbe allo stato attuale. Inoltre, alla Palestina non verrebbe riconosciuta Gerusalemme Est come propria capitale, né ai profughi palestinesi verrebbe data la possibilità di farvi ritorno per ricongiungersi con i discendenti.

In compenso, la Striscia di Gaza verrebbe ampliata ottenendo una porzione del territorio desertico del Sinai egiziano, mentre tutti i palestinesi godrebbero di cospicui finanziamenti garantiti dalla monarchia saudita. Un funzionario del governo libanese ha affermato persino che il governo saudita avrebbe indicato come possibile nuova capitale della Palestina Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme Est separato dalla città dal muro di separazione costruito da Israele.

Questo piano è lo stesso che sarebbe stato presentato a Mahmoud Abbas in persona dal principe Salman durante il loro misterioso incontro a porte chiuse tenutosi a Riad lo scorso novembre, del quale non a caso Abbas non ha ufficialmente fatto parola con nessuno. Salvo iniziare una girandola di telefonate ai leader regionali già dal giorno dopo, per chiarire la propria posizione in relazione ai negoziati di pace.

Durante il colloquio con Salman, Abbas sarebbe anche stato minacciato dal principe ereditario di una sua prossima rimozione da leader di Fatah, se questi non si allineerà ai dettami del monarca in pectore. Un aspetto che ricorda molto da vicino quanto già fatto da Salman con il premier libanese Hariri, convocato a Riad e costretto a minacciare le proprie dimissioni per dimostrare l’influenza saudita sul paese. Altre fonti hanno aggiunto del rifiuto di Abbas di vedersi riconosciuto dal monarca un compenso a titolo personale per i buoni uffici in questa delicata partita politica. Un altro degli elementi che rende questa storia plausibile.

 

La posizione di Israele

 

Se tali indiscrezioni non trovano aperta conferma presso nessun governo coinvolto nella partita, è però evidente che qualcosa sta effettivamente accadendo sottotraccia. L’ambasciatore saudita negli Stati Uniti, principe Khalid bin Salman, ha frenato le indiscrezioni, sottolineando come il regno rimanga «impegnato in un accordo basato sull’iniziativa di pace araba del 2002, inclusa Gerusalemme Est come capitale di uno stato palestinese basato sui confini del 1967». Eppure, il silenzio assoluto degli israeliani la dice lunga sulla fondatezza di tali negoziati. Di certo, un simile accordo non può che essere visto con favore da Tel Aviv, che condivide con l’Arabia Saudita un progetto ben più ampio della sola risoluzione della questione israelo-palestinese. E quel progetto si chiama Iran.

Frenare l’espansionismo di Teheran è il vero punto di caduta per entrambi i governi, che negli anni hanno appianato le proprie divergenze in ordine alla necessità di impedire al nemico comune di avere la meglio nella regione. E quale miglior momento se non questo, in cui l’intero Medio Oriente è da ricostruire, in cui c’è un presidente americano totalmente favorevole a ridimensionare l’espansionismo in atto da parte dell’Iran, e in cui Egitto, Giordania e lo stesso Stato di Israele guardano a Riad e Washington con ritrovato interesse?

Che poi nel balletto di dichiarazioni ufficiali gli stati arabi si affrettino a condannare un eventuale spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, preludio dell’accordo disegnato a Riad, è un gioco delle parti doveroso e responsabile, viste le conseguenze imprevedibili di un simile scenario. Ma la realtà è che il mondo arabo sunnita, uscito fortemente indebolito dalla guerra siro-irachena, non ha granché da perdere da un simile negoziato di pace, sia pur apertamente sbilanciato in favore di Israele, e può al contrario guadagnare maggior protezione. Ed ecco perché sono in molti a fare buon viso a cattivo gioco alle frenesie politiche del giovane Mohammed bin Salman, anche se questo significherà sacrificare la questione palestinese sull’altare della pace.

Di certo, tutti hanno compreso che la mossa di Riad è stata concordata durante la visita di Donald Trump in Arabia Saudita lo scorso maggio. E che la decisione di spostare l’ambasciata vuole suonare come il segnale dell’inizio di una nuova stagione politica per il Medio Oriente. Che poi questa decisione possa condurre a un futuro di pace e prosperità, bè, questa è tutta un’altra storia.