Dal 2011, anno in cui sono iniziate le disgraziate primavere arabe, le Nazioni Unite hanno brillato per il loro silenzio. Non che fossimo stupiti di questo silenzio. Basti pensare che l’ultimo trattato di pace tra israeliani e palestinesi è stato concluso con gli Accordi di Oslo del 1993, e solo grazie all’impegno degli americani che portarono al tavolo delle trattative Yitzhak Rabin e Yasser Arafat. Da allora dell’ONU in Medio Oriente non si è avuta più alcuna traccia.
Perché questa incapacità di agire? L’ONU è un’organizzazione pachidermica e costosissima. È paralizzata dal suo statuto. Nel suo Consiglio di Sicurezza vige il potere di veto che possono esercitare le cinque potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, il che di fatto ha sempre bloccato qualsiasi decisione razionale. Nella sua Assemblea Generale il voto di ogni Paese membro ha lo stesso peso: di conseguenza l’Ecuador vale quanto la Russia, il Nepal quanto gli Stati Uniti. Il problema è che questa Assemblea Generale è dominata da Paesi che non sono certamente l’immagine della democrazia quale noi la consideriamo, bensì sono retti in buona parte o da autocrazie, o da dittature o da governi falsamente democratici. Tutto ciò rende l’Assemblea Generale un’organizzazione nella quale si parla molto e si decide poco.
Ogni tanto per giustificare la loro presenza le Nazioni Unite aprono bocca ed esprimono delle decisioni che, nella maggior parte dei casi, sono a dir poco discutibili. Nell’ultimo di questi casi, il 21 dicembre, con 128 a favore e 9 contrari l’Assemblea Generale ha condannato la decisione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di interrompere la finzione burocratica che da anni bloccava il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale d’Israele. Questa decisione, è bene ricordarlo, non è stata assunta da Trump ma dal Congresso di Washington nel 1995. Da allora, però, è stata bloccata di sei mesi in sei mesi dai presidenti che si sono succeduti alla Casa Bianca: Bill Clinton, George W. Bush, Barack Obama. Spettava infatti a loro dare l’autorizzazione tecnica per spostare l’Ambasciata americana da Tel Aviv Gerusalemme. Ma in questi anni nessuno ha avuto il coraggio di compiere l’ultimo passaggio. Coraggio che poche settimane fa non è mancato a Trump, la cui mossa oltre che “tecnica” ha indubbiamente un alto valore politico.
Detto ciò, se c’è un organismo internazionale che rispetto a questo passaggio non aveva il diritto di aprire bocca, quell’organismo era l’ONU. Incapaci di smuovere di un millimetro il processo di pace in Medio Oriente, le Nazioni Unite in questi ultimi anni hanno assistito senza muovere un dito alla distruzione dell’Iraq a opera degli americani, alla crisi siriana, alla nascita dello Stato Islamico. E ieri non hanno perso l’occasione per assumere un’altra decisione tanto roboante quanto inutile.
Ma c’è un altro problema di cui tenere conto. Alla decisione presa dalla maggioranza dell’Assemblea Generale si sono allineati Paesi tradizionalmente alleati degli Stati Uniti e amici di Israele. Non è un bel segnale. Si poteva approfittare dell’impudenza di Trump per fare un generale passo in avanti, e invece si sono rimarcate le distanze. Gerusalemme è la capitale degli ebrei da oltre tremila anni. È stata per secoli la capitale ideale degli ebrei della diaspora che, non a caso, ogni anno recitavano la formula “L’anno prossimo, a Gerusalemme”, un motto che suona un po’ come quel “Roma o morte” pronunciato dai garibaldini. Dal 1967, quando le forze armate israeliane hanno liberato dall’oppressione musulmana la parte occidentale di Gerusalemme, questo luogo è divenuto il patrimonio spirituale di tutti: degli ebrei, dei musulmani e dei cristiani. Da allora Gerusalemme è la capitale di tre religioni. Riconoscendo Gerusalemme la capitale di Israele Trump ha pertanto riconosciuto semplicemente un dato di fatto.
In conclusione, la decisione delle Nazioni Unite non avvicina di un millimetro la pace in Medio Oriente. Votando contro Trump i Paesi occidentali hanno riconosciuto di non essere in grado di incidere su questo processo, sposando piuttosto un’idea politicamente corretta che però è altrettanto politicamente sbagliata. Nel fare queste scelte chi cade in errore dimentica che ci sono frontiere geografiche che sono frontiere politiche, determinate dall’esito di una o più guerre. Israele ne ha vinte quattro contro i suoi vicini arabi, e oggi giustamente rivendica come propri i confini che ha conquistato.
Un’ultima nota per collegare quanto avviene in Medio Oriente a quanto sta accadendo al confine tra Italia e Austria. Pochi giorni fa un rappresentante del governo di Vienna ha proposto di fornire agli abitanti italiani dell’Alto Adige anche un passaporto austriaco. Questa iniziativa ha riaperto il problema irrisolto di questa terra, vale dire il problema di un gruppo etnico tedesco “intrappolato” in Italia da frontiere decise dopo la prima guerra mondiale. È giusto dire, allora, che i tedeschi dell’Alto Adige hanno gli stessi diritti dei palestinesi. Se riconosciamo che le frontiere non vengono definite dalle guerre, allora anche l’Alto Adige dovrebbe avere il diritto di ricongiungersi alla sua patria etnica che non è l’Italia. Su questo l’Onu non ha avuto niente da dire?
Alfredo Mantici
Ex capo del Dipartimento Analisi del Sisde, Direttore Analisi dI Babilon magazine e detective nel noto reality "Celebrity Hunted"
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