Negli ultimi anni, sotto la guida di Benjamin Netanyahu Israele è stato molto attivo in politica estera e piuttosto interventista in diverse aree di crisi. Seguendo la logica secondo cui «il nemico del mio nemico è mio amico»,Tel Aviv ha avviato un graduale processo di allineamento con alcune monarchie del Golfo, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti in primis. Con gli Accordi di Abramo del 2020 Israele ha puntato a normalizzare i rapporti principalmente con Riad, perseguendo l’obiettivo comune di contrastare l’influenza iraniana nell’area Mena.

Il più grande timore di Tel Aviv resta la minaccia nucleare iraniana, come hanno confermato diverse sue azioni nel recente passato: i rapporti ai minimi storici con l’alleato americano in occasione dell’accordo sul programma nucleare iraniano negoziato e siglato dall’Amministrazione Obama; l’enorme gamma di azioni cibernetiche condotte da Cia e Mossad al fine di sabotare le centrali iraniane, su tutte l’operazione Olimpic Games scattata nel 2006; l’omicidio dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh e di altri scienziati iraniani, di cui sono autori secondo Teheran i servizi segreti israeliani.

Sempre in questa direzione va letto l’intervento militare sotto traccia condotto da Israele nell’ultimo conflitto armeno-azero del 2020, che oppone da decenni l’Armenia cristiana all’Azerbaijan musulmano per il controllo della contestata regione cristiana del Nagorno Karabakh. Tel Aviv, con il consenso di Ankara, ha approfittato del conflitto per testare i suoi moderni sistemi di tracciamento del territorio in un’area che presenta una morfologia del terreno molto simile a quella dell’Iran. È stato, d’altronde, grazie alle tecnologie israeliane se i droni turchi hanno potuto ottenere eccellenti risultati in questo conflitto e fornire il contributo decisivo alla vittoria delle forze armate di Baku sulle forze armene.

L’aspetto da rimarcare in questa vicenda è la ripresa delle relazioni con Ankara. Relazioni che erano state interrotte dal 2010 per il caso della Navi Marmara (il 31 maggio di quell’anno una flottiglia di attivisti pro-palestinesi, fu intercettata da forze navali israeliane mentre tentava di violare il blocco di Gaza; negli scontri che seguirono ci furono 9 morti), dopo che la Turchia era stata la prima e per molti decenni unica nazione musulmana a riconoscere e dialogare con lo Stato sionista.

Questo approccio aggressivo in politica estera ha permesso a Israele di ampliare sensibilmente il proprio raggio d’azione. Al contempo, giocare contemporaneamente su più fronti si è rivelato per Tel Aviv a tratti rischioso, innescando dei cortocircuiti. Israele, ad esempio, è in buoni rapporti tanto con gli Emirati quanto e con la Turchia (prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, ndr), che però in Libia sostengono i due fronti in lotta, con Abu Dhabi che spalleggia il generale della Cirenaica Haftar e Ankara, che invece, ha tenuto in piedi il fragile Governo di accordo nazionale di Tripoli. L’intraprendenza diplomatica e militare di Israele, e il suo proverbiale realismo politico, ne stanno comunque facendo un attore sempre più centrale non solo nell’area Mena. Come dimostrano i tentativi di mediazione portati avanti dall’ex premier Naftali Bennett sin dalle battute iniziali dell’invasione russa dell’Ucraina alla fine del febbraio 2022.

Tratto dal libro
La Fiera dell’Est
di Nicola Lippolis