Hassan Rowhani endorsed as the new Iran's President

«La rivolta in Iran è stata sconfitta» ha tuonato martedì 3 gennaio il comandante dei Pasdaran iraniani, Mohammad Ali Jafari, mettendo a tacere le voci che volevano il governo iraniano in grave difficoltà di fronte a un’ondata di proteste senza leader né precedenti. La violenza e la repressione, applicate in maniera metodica dai Pasdaran, hanno in effetti funzionato alla perfezione, consentendo agli Ayatollah di non perdere troppo il sonno. Il sistema, insomma, ha retto all’onda d’urto della piazza.

Del resto, non vi erano molti dubbi perché – come già scritto su queste pagine – le istituzioni iraniane possiedono tutti gli anticorpi per far fronte a questa emergenza e silenziare le montanti proteste di piazza. Ciò nonostante, resta il precedente. Ed è di un tipo molto grave, perché capace di insinuarsi nella mente delle grandi masse moderate. Milioni di persone che, forse per la prima volta, hanno guardato in faccia la realtà e compreso che il regime di Khamenei non è un monolite e non è neppure così solido. Anzi, inizia a mostrare le prime crepe.

 

Ahmadinejad un capro espiatorio

Una di queste crepe si chiama Mahmoud Ahmadinejad, l’ex presidente conservatore che ha cavalcato le prime ore della protesta, per dimostrare agli Ayatollah che non è prudente da parte loro minacciare lui e i suoi sodali, esclusi dalla politica a suon di arresti e indagini fiscali a partire dal 2013. Accusato dagli stessi Pasdaran di essere la mente della rivolta del 28 dicembre, l’ex presidente iraniano è però rimasto sbigottito circa la portata delle proteste tanto quanto il suo successore Hassan Rouhani e la stessa Guida Suprema Ali Khamenei. Né lui né gli altri si aspettavano una tale adesione alle proteste.

La figura di Ahmadinejad, inoltre, è troppo sbiadita e complessivamente negativa per rappresentare un elemento di unità intorno al quale masse di cittadini moderati – peraltro scesi in piazza senza bandiere politiche né religiose – si possano stringere. L’inner circle dell’ex presidente è in odor di corruzione, e lui stesso è accusato di essere responsabile di una sciagurata politica estera che ha contribuito all’isolamento e conseguentemente all’impoverimento delle classi medie iraniane. Questo fa certamente di Ahmadinejad un capro espiatorio, perché egli è tutto tranne che un simbolo o una guida cui riferirsi.

Piuttosto, è stata un’oculata vendetta da parte dei Pasdaran a far piovere sull’ex presidente quest’infamante accusa, che lo ha precipitato definitivamente nella polvere. Ma, per restare in metafora, le accuse contro l’ex presidente sono soltanto fumo negli occhi. La verità, invece, porta lo sguardo lontano, e cioè a quella massa silenziosa di cittadini comuni che iniziano a comprendere forse per la prima volta come anche il potente regime degli Ayatollah sia vulnerabile. Anche Teheran può cadere, così come sono caduti molti altri regimi in tutto il Medio Oriente a partire dalle Primavere Arabe.

 

Una spina nel fianco per gli Ayatollah

Per queste ragioni, la protesta di fine anno resterà una spina nel fianco per gli Ayatollah per tutto il corso del 2018. Quando, infatti, è la gente comune a scendere in piazza e non i soliti volti noti (che per un motivo o l’altro hanno un interesse preciso nel cavalcare il malcontento), appare subito chiaro quanto profondo sia il disagio all’interno della società iraniana.

Chi, soltanto poche settimane fa, definiva le dichiarazioni di Donald Trump su Gerusalemme incendiare e capaci di far scoppiare una nuova Intifada in Terra santa, si è dovuto ricredere nell’osservare la tempesta spegnersi in un bicchier d’acqua. Costoro forse hanno compreso meglio come gli schemi e le ideologie del Novecento abbiano sempre meno mordente presso il popolo, mentre altre e più urgenti istanze poste dal nuovo millennio, che sono anzitutto economiche e liberali, possono determinare eventi epocali.

Chi già vedeva l’Iran padrone del Medio Oriente e lo sciismo degli Ayatollah trionfante, ha potuto invece constatare che proprio in Iran si è sedimentato un malcontento che adesso rischia seriamente di destabilizzare quel regime quarantennale che, da Khomeini in poi, ha dato al clero sciita le chiavi per dominare ogni aspetto della vita politica, economica e sociale dell’Iran.

In conclusione, allontanando lo sguardo emerge in tutta chiarezza come la tragedia della guerra in Siria e Iraq riservi ancora molte sorprese per quanti ne hanno preso parte. L’onda d’urto provocata da quell’evento e dal corollario di ribellioni partite nel 2011, ancora nel 2018 fa tremare anche i palazzi del potere tanto in Iran quanto in Arabia Saudita. Se la monarchia che regna a Riad ha compreso che “il re è nudo” e ha risposto con un cambio significativo di leadership dettato dall’istinto di sopravvivenza non meno che dalla lungimiranza, la teocrazia che impera a Teheran per adesso risponde con le accuse di complotto e sla repressione. Il che, di solito, prelude al peggio.