Le proteste che stanno animando l’Iraq sono il frutto di un malfunzionamento strutturale del sistema che probabilmente neanche un cambiamento di governo sarebbe in grado di modificare. Ma cosa chiedono davvero i manifestanti?
Nei primi giorni del mese di ottobre un’ondata di proteste anti-governative ha invaso le strade delle principali città irachene, dove la popolazione ha manifestato contro la corruzione politica, lo scarso accesso ai servizi e l’alto tasso di disoccupazione. Le forze di sicurezza sono intervenute per controllare le manifestazioni e il numero delle persone uccise è salito a 109 e circa 6.000 feriti in meno di una settimana dall’inizio delle proteste. Le Nazioni Unite e associazioni come Amnesty International hanno chiesto al governo iracheno di rispettare i diritti dei manifestanti, denunciando l’abuso di potere e l’uso della violenza.
Il Primo Ministro Adel Abdu Mahdi si è dichiarato favorevole ad un incontro con i rappresentanti pacifici delle manifestazioni e lo stesso leader spirituale sciita, il Grand Ayatollah Ali al-Sistani, ha chiesto al governo di rispondere alle richieste della popolazione evitando una repressione violenta delle manifestazioni.
Ma quali sono le cause delle proteste?
I problemi strutturali: Nelle strade di Baghdad e non solo, i manifestanti chiedono le dimissioni del Primo Ministro Adel Abdul Mahdi e una riforma dell’intero establishment politico, corrotto e incapace di rispondere ai problemi del Paese. L’Iraq è il quarto paese al mondo per riserve petrolifere, eppure più dei 3/5 della popolazione vive con meno di 6 dollari al giorno. La disoccupazione giovanile ha raggiunto negli ultimi anni la soglia del 25% e vi è uno scarso accesso ai servizi di base come ospedali, scuole, acqua potabile e corrente elettrica. Nonostante un’apparente stabilità raggiunta dopo la sconfitta dello Stato Islamico e le elezioni parlamentari del maggio 2018, l’Iraq si trova a dover affrontare una serie di problematiche come il processo di ricostruzione delle aree liberate dall’IS e soprattutto la ristrutturazione di un’economia dilaniata dal conflitto. Le prospettive del primo semestre del 2019 risultavano positive grazie anche all’aumento del costo del greggio e al miglioramento delle condizioni di sicurezza ma ciò non ha comportato un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.
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Un regime change non apporterebbe comunque il cambiamento sistemico di cui l’Iraq avrebbe bisogno: nel medio periodo, la frammentazione settaria della società irachena non permetterebbe ai protestanti di agire in modo unitario e ottenere risultati concreti sul piano economico politico e sociale, i quali richiedono sicuramente strategie di lungo periodo.
Foto di copertina: CNN
Altea Pericoli
Nata nel 1992, Dottoranda in Istituzioni e Politiche e cultrice di Storia e Istituzioni del Mondo Musulmano presso l’Università Cattolica di Milano. Grande attenzione al mondo arabo islamico e la visione islamica dell’aiuto umanitario e allo sviluppo.
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