I focolai di tensione in Medio Oriente sono riesplosi in tutta la loro drammaticità proprio quando, in questi giorni di maggio, Israele s’appresta a festeggiare i settant’anni della nascita dello Stato. Motivo per cui in tutta la nazione si respira una tensione palpabile, giustificata dai venti di guerra al confine. A pesare, infatti, non soltanto il fatto che – come si sarebbe potuto credere qualche tempo fa – la storia e il popolo israeliano non hanno mai dato per scontato il raggiungimento di questo traguardo, ma piuttosto che ai confini monta da molti mesi una minaccia ancora tutta da decifrare. Anzi, due.

Una si chiama Striscia di Gaza, e l’altra invece Iran. E c’è chi giura che, ormai, siano due facce della stessa medaglia. In questo 14 maggio in cui Israele riscopre le proprie radici, perciò, restano sullo sfondo le mille contraddizioni di una politica sottile e severa, quella del mantenimento della pace e dello status quo lungo i propri confini, che il paese si è sinora garantito attraverso la politica della deterrenza. Una linea che, parafrasando, si traduce più o meno come la miglior difesa è l’attacco.

È quello che si verifica puntualmente da almeno due mesi a Gaza, dove la popolazione palestinese è in fermento e ogni venerdì lancia la sua gioventù a esporsi al fuoco nemico parandosi dietro una bandiera, quella della “marcia del ritorno”, che simboleggia la riappropriazione del territorio contestato. Risultato: decine di morti e centinaia di feriti sinora.

 

Gerusalemme capitale

Come noto, la Palestina si ritiene vittima della “Nakba” ossia la catastrofe di aver perso la guerra e la terra in favore di Gerusalemme. E ha partorito questa ennesima manifestazione di rabbia, da quando sono stati annunciati i preparativi per investire Gerusalemme del titolo ufficiale di capitale d’Israele, grazie ai buoni uffici degli Stati Uniti d’America che, contestualmente, il 14 maggio insediano la propria ambasciata in città. Ma Gerusalemme è cara anche agli arabi, ai musulmani e soprattutto ai palestinesi, che ne vorrebbero fare la propria ed esclusiva capitale, ed eccoci quindi al corto circuito.

Sono stato a Gerusalemme l’ultima volta a Pasqua. Ero incuriosito dalla nuova promettente “Silicon Valley” che sta nascendo intorno alla Hebrew University, in una competizione tanto accesa quanto brillante con Tel Aviv, l’avamposto tecnologicamente più avanzato dell’Occidente. Sono rimasto sorpreso dal fatto che, mentre un’intera generazione di giovani sta lavorando per convertire all’hi-tech l’industria nazionale (persino gli ultraortodossi creano app vincenti, alcune delle quali quotate al Nasdaq), dall’altra parte i loro coetanei minacciano di riportare l’orologio indietro, più o meno intorno al 1948. Non è qui opportuno analizzare i perché della lunga crisi o tentare di capire chi ha ragione. Basti rammentare che il ’48 è l’anno in cui, alla fine di una guerra sconvolgente, c’era una regione intera da ricreare e molte comunità da mettere a fattor comune. Come noto, non fu possibile. E non lo è neppure adesso.

A Pasqua non era ancora ufficiale che quelle sarebbero diventate presto le strade della capitale, elemento dato ovviamente per scontato dagli israeliani ma ferocemente contestato da numerosissimi paesi, non solo arabi. Come promesso e mantenuto, Donald J. Trump, il presidente americano più sbilanciato in favore di Israele degli ultimi tempi, ha riportato l’ambasciata in quella che riconosce come unica e sola capitale dello Stato, e ha mandato a ufficializzare la cosa “Jarvanka”, come i detrattori di Washington chiamano la coppia Jared Kushner-Ivanka Trump, ovvero il genero e la figlia prediletta del presidente, consiglieri speciali della Casa Bianca (Kushner ha la delega al Medio Oriente).

 

La città di David

Molte altre circostanze s’intrecciano con l’anniversario dei settant’anni. Ad esempio, la scoperta definitiva della prima pietra della città di David, che mostra le tracce più antiche della presenza ebraica in questa terra e che rappresenta un dato archeologico incontestabile. Anche perché la fonte è l’Antica Roma, una delle civiltà e degli eserciti che più si sono accaniti contro gli ebrei. Il Ministro per Gerusalemme aveva invitato me e altri giornalisti a visitare il cantiere, mentre ancora erano in corso i lavori. Purtroppo, quel giorno sul sito archeologico non c’era nessuno, perché un membro apparentemente dell’ISIS aveva appena accoltellato uno degli operai che vi lavoravano, decretando la morte per entrambi.

Quello che ha detto il Ministro Elkinin ai bordi dell’antica piscina, dove i pellegrini s’immergevano per le abluzioni prima di raggiungere il Tempio, è stato molto chiaro: «Siamo in una situazione speciale, ma fa parte della nostra vita» ha affermato, commentando la morte del giovane accoltellato, per poi passare a riflessioni più politiche. «La storia ebraica di Gerusalemme inizia con Re David. Dunque, siamo nel posto più antico e importante che ci è rimasto. La storia e la Bibbia ci parlano. Certo, ci sono storie diverse, c’è la storia ebraica e quella araba, e quella cristiana ovviamente. Anche le loro radici sono qui, e il mio personale approccio è cercare di mantenerle tutte vive, per tramandarle. Ma questo non cambia il fatto che Gerusalemme è il centro della storia ebraica da migliaia di anni. Inoltre, praticamente tutte le istituzioni, le attività del governo, il parlamento, i meeting e le relazioni internazionali hanno sede in città. Quindi, la decisione degli americani per noi è ovvia, non sorprendente».

E circa il processo di pace e della soluzione a due Stati: «Dalla fondazione d’Israele nel ’48 agli accordi di Oslo degli anni ’90 sono morti circa mille israeliani per mano dei palestinesi, mentre solo dalla firma di Oslo a oggi ne sono morti già oltre millecinquecento. Significa che, paradossalmente, durante i negoziati sono morte più persone in attacchi terroristici di sempre. Ecco perché, almeno a seguire le statistiche, essi non sarebbero da prendere seriamente in considerazione. In questi vent’anni, ogni passo che abbiamo fatto per la pace ci è costato molto caro».

 

La sfida con l’Iran

In ogni caso, la Palestina non è più il principale problema degli israeliani. Almeno, non dall’Operazione Margine di protezione del 2014, quando cinquantuno giorni di guerra hanno messo in ginocchio Hamas e le forze paramilitari palestinesi, cristallizzando la situazione. Oggi (come sempre, secondo alcuni) il vero problema si chiama piuttosto Iran. Che, a differenza dei miliziani palestinesi, ha un esercito agguerrito e pienamente coinvolto nel conflitto siriano, dove la guerra infuria senza soste dal 2011. Gli Ayatollah non hanno alcuna intenzione di abbandonare quella terra di nessuno, dove la guerra civile ha aperto spazi immensi che nessuno ha ancora riempito. Sono troppe le opportunità all’orizzonte per Teheran e non è un caso che il presidente siriano, Bashar Al Assad, sia ancora in piedi: è grazie proprio agli sforzi militari dei persiani e delle milizie libanesi di Hezbollah, il “partito di Dio” che ha appena vinto le elezioni. Entrambi sanno di rappresentare una forza regionale potenzialmente dominante, e dunque una minaccia concreta per Israele.

Del resto, visitando le alture del Golan, appare evidente come i confini con la Siria e il Libano siano tracciati solo sulla carta, e come invece i caschi blu della missione UNIFIL a protezione della frontiera non si vedano se non di rado. Quella terra, secondo tutti quelli che ci vivono, è ancora da assegnare. Ed è così che, da quando la guerra di Siria è iniziata, si moltiplicano gli sconfinamenti. Ed è proprio per questo che Israele ha sempre risposto con la forza, riconoscendo questo come il solo modo per proteggersi. Tuttavia, da quando l’Iran ha deciso di aumentare la propria presenza militare e i rifornimenti di armi ai nemici di Israele che scorazzano in Siria, si è creata la pericolosa escalation che ha portato al punto di rottura tra i due paesi. Che, questo maggio, sono arrivati a ingaggiare i primi conflitti a fuoco diretti, sia pure in terra straniera.

Pertanto, quanto sta avvenendo in queste ore, nel momento esatto in cui cade il settantesimo anniversario dello stato di Israele, mette il paese spalle al muro, con un premier contestato in casa e che perciò preferisce guardare all’estero, incerto se portare un colpo ferale a Teheran o se attendere ancora che l’ondata anti-israeliana li travolga. Dall’altra parte, gli Ayatollah sanno che aggredire direttamente Israele provocherebbe la dura reazione degli Stati Uniti, e non è il caso. Ma, avvelenati dalla decisione del presidente Trump di stracciare l’accordo per il nucleare e supportati dall’alleanza con la Russia, i Guardiani della Rivoluzione non si sono mai sentiti così vicini a dichiarare guerra aperta a Gerusalemme.

Netanyahu ha promesso che, se provocati ancora, «gli israeliani faranno cadere Bashar Al Assad» ovvero la foglia di fico che sinora ha impedito ai due eserciti di scontrarsi frontalmente. Quanto potrà reggere ancora questa situazione?

Articolo pubblicato sulla rubrica Oltrefrontiera di Panorama.it