Kurdistan

L’invito a deporre le armi rivolto dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite al governo di Baghdad e alla leadership del Kurdistan iracheno è destinato nel lungo periodo a cadere nel vuoto, nonostante la possibilità di arrivare a un accordo di cessate il fuoco tra le parti. Dopo il referendum sull’indipendenza del Kurdistan dello scorso 25 settembre, conclusosi con un plebiscito a favore del sì, lo scontro frontale tra l’esecutivo centrale e la regione autonoma era d’altronde inevitabile.

Di fronte ai blindati iracheni che, una dopo l’altra, hanno schiacciato le bandierine che i peshmerga avevano issato nei territori strappati nell’ultimo anno allo Stato Islamico, il presidente curdo Masoud Barzani ha provato a correre ai ripari. Ma la sua proposta di sospendere i preparativi per le elezioni presidenziali e parlamentari, che si sarebbero dovute tenere nel Kurdistan iracheno il primo novembre, non è bastata al premier del governo centrale Haider Al Abadi, il quale forte del sostegno di Turchia e Iran ha dato mandato ai suoi militari di continuare ad avanzare.

Dopo la ricca provincia petrolifera di Kirkuk e la diga di Mosul, dove 500 soldati italiani sorvegliano i lavori di consolidamento dell’infrastruttura condotti dalla società Trevi, adesso l’ultimatum lanciato ai peshmerga è di ritirarsi dal valico di frontiera di Fish Khabur, situato nell’estremità settentrionale del Kurdistan iracheno al confine con la Turchia. Ai curdi sono state date poche ore di tempo per abbandonare l’area.

Dopo aver preso la ricca provincia petrolifera di Kirkuk e la diga di Mosul adesso l’esercito iracheno punta al valico di frontiera con la Turchia di Fish Khabur

Per capire il perché di così tanta attenzione posta da Baghdad su questo luogo basta seguire le rotte del petrolio. Fish Khabur è il punto in cui convergono i territori controllati dalle forze curde tra il nord-est della Siria, il nord-ovest dell’Iraq e il sud della Turchia. Da qui transitano svariati traffici, compresi quelli di armi e gasolio. Ma soprattutto per quest’area, così come nei pressi delle località limitrofe di Zummar e Rabiya, riprese dall’esercito iracheno nei giorni scorsi, transita una strategica pipeline che fa arrivare il greggio dai giacimenti di Kirkuk fino al porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo.

Durante i combattimenti contro le milizie di ISIS nella parte nord-occidentale dell’Iraq, i curdi hanno chiuso i rubinetti di questa pipeline costruendone una più a nord. Ma dopo lo strappo sancito dal referendum, la situazione per loro è radicalmente cambiata. Persi i giacimenti di Kirkuk, la diga di Mosul e presto anche il valico di frontiera di Fishkhabur, al fragile governo di Barzani non restano che il controllo di Erbil e un importante affare avviato con il colosso energetico russo Rosneft su cui proverà a fare leva per ottenere l’appoggio di Mosca. Ma all’improvviso gli alleati che per anni sono stati al suo fianco iniziano a scarseggiare e presto molti altri potrebbero decidere di voltargli le spalle. In gioco c’è il destino del Kurdistan iracheno. E non tutti sono disposti a restare fermi e assistere alla lenta agonia in cui versa dal giorno del sì all’indipendenza.