Quanto sono sostenibili i piani di sviluppo economico promossi da Pechino? E cosa sta facendo il Governo cinese per implementare efficacemente gli accordi sul clima di Parigi? Il quadro economico attuale del gigante asiatico appare piuttosto delicato e confuso, anche a causa della guerra commerciale con gli USA di Trump.

ECONOMIA, AMBIENTE ED ENERGIA

«La distruzione della natura e della biodiversità è terrificante in Cina. Le industrie inquinano i fiumi, l’agricoltura distrugge gli ambienti naturali dove vivevano gli animali selvatici e le città continuano ad allargarsi». Zhou Jinfeng, segretario generale della Fondazione cinese per la tutela della biodiversità e per lo sviluppo verde, la Guangcai, non ha molti dubbi su quali siano le terribili conseguenze dello sviluppo economico cinese. In una recente intervista per il Corriere della Sera, Zhou, da anni impegnato in un prestigioso programma di collaborazione tra Governo, ONG e società private per uno sviluppo sostenibile, non nasconde i lati oscuri della crescita nazionale, ma allo stesso tempo si dichiara ottimista sul futuro e sulla possibilità di trasformare la Cina in un Paese ambientalista. Oggi dunque l’economia cinese non può prescindere dal considerare le ripercussioni delle proprie scelte economiche, soprattutto sull’ambiente. Infatti la Cina, secondo consumatore di energia e primo Paese per emissioni di gas serra, dovrà prendere decisioni in materia energetica con estrema cautela e riconsiderare con grande lungimiranza il proprio mix energetico con l’obiettivo di ottemperare agli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici. La crescita costante, seppur in rallentamento rispetto agli ultimi dieci anni, pone Pechino in una posizione estremamente delicata, se si considera la costante domanda di energia e l’aumento dei fabbisogni della classe media cinese, sempre più cospicua. Ambiente e ricchezza rappresentano, per il presidente Xi Jinping, i piatti di una bilancia difficile da mantenere in equilibrio.

Fig. 1 – Pescatori e pannelli fotovoltaici in un bacino idrico della città di Yangzhou, situata a nord del grande fiume Yangtze

DISCORDANZE

Se le notizie di investimenti cinesi nel settore delle rinnovabili e le parole di Zhou Jinfeng fanno intravedere il profilo green della Cina, alcune tra le principali ONG ambientaliste, come la tedesca Urgewald o la CoalSwarm, ci mostrano uno scenario tristemente differente. Le due ricerche, incentrate sull’uso del carbone in Cina, rivelano come questa fonte altamente inquinante sia ancora molto utilizzata e soprattutto destinataria di investimenti da parte del Governo. In particolare dal lavoro della Urgewald, emerge come la ricerca di carbone da parte della Cina si estenda anche oltre i confini nazionali, andando a finanziare progetti in almeno 17 diversi Paesi. I dati della CoalSwarm non lasciano sperare in un reale cambio di rotta di Pechino: sul territorio nazionale, nonostante le restrizioni e i dietrofront del Governo sulla costruzione di nuovi impianti a carbone, le immagini satellitari pubblicate dall’associazione ambientalista mostrano come molti dei progetti, sulla carta bloccati, siano invece in evoluzione, come per esempio l’impianto Huadian da 700 megawatt a Nanxiong, nella provincia del Guangdong. Secondo il Global Energy Statistical Yearbook 2018, in Cina solo nel 2017 sono stati consumati 3.607 milioni di tonnellate di carbone, nonostante l’aumento del prezzo del carbonio: considerando che oltre 4,3 milioni di persone lavorano nel settore, è molto difficile credere che Pechino possa rinunciare ai facili guadagni derivanti dall’utilizzo di questa fonte energetica.

Fig. 2 – La bandiera cinese a fianco di quella americana durante il primo China International Import Expo (CIIE) tenutosi a Shanghai lo scorso novembre

CINA VS USA

Gli ultimi aggiornamenti dal G20 di Buenos Aires dedicato alla «Creazione di Consenso sullo Sviluppo Equo e Sostenibile» mostrano le delegazioni cinese e americana intente a scambiarsi reciproche strette di mano e toni concilianti al termine di una lunga cena in un hotel della capitale argentina. Cina e Stati Uniti, al centro di una guerra commerciale alle importazioni, pare abbiano raggiunto una tregua sull’imposizione di dazi, in occasione dell’incontro a Buenos Aires, condividendo uno stop temporaneo a eventuali tariffe aggiuntive sulle reciproche importazioni. In particolare, secondo quanto indicato dalla Casa Bianca, Trump bloccherà al 10% le tariffe su 200 miliardi di dollari di merci importate dalla Cina, senza raggiungere il rialzo del 25% in precedenza annunciato. La Cina invece, per riequilibrare la bilancia commerciale con gli USA, comprerà prodotti agricoli e industriali americani. Oltre a questi accordi, però, persiste poca chiarezza sul fronte degli accordi su tecnologia, cyber-security e proprietà intellettuale: se dalla Casa Bianca i comunicati stampa parlano infatti di 90 giorni per concludere questi negoziati ed evitare l’imposizione di nuove tariffe, la Cina non fa alcun riferimento a tale scadenza. Dunque nonostante l’ottimismo di Trump, molto ci sarà da fare per le delegazioni delle due potenze, soprattutto per la Cina, che tra le due è quella con maggiore interesse a concludere positivamente gli accordi. Infatti l’ammontare del valore delle tariffe americane imposte alle merci cinesi raggiunge i 250 miliardi di dollari, mentre quello cinese si attesta sui 110 miliardi di dollari.

Fig. 3 – La Cina è tra i maggiori player nel settore della tecnologia 5G, utilizzata non solo per le telecomunicazioni

IL PROBLEMA DEL DEBITO NAZIONALE

L’economia cinese deve confrontarsi non solo con fattori esterni come il rapporto con gli USA o con gli altri Paesi emergenti, ma deve affrontare anche problematiche interne come il debito nazionale. Le stime parlano di un debito complessivo che ha raggiunto quota 260% del PIL, cifra che secondo il Fondo Monetario corrisponderebbe a circa 23mila miliardi di dollari se si considerano i debiti delle imprese, delle amministrazioni e dei nuclei familiari cinesi. Il Governo cinese risponde a questi numeri evidenziando come questi debiti siano serviti a potenziare e sostenere i progetti e i finanziamenti della Belt and Road Initiative (BRI), ma negli ultimi anni, soprattutto nei Paesi del Sud-est asiatico, la nuova Via della Seta cinese non gode di ottima reputazione. Molte infatti sono state le opposizioni alla presenza cinese nei diversi Paesi a causa degli eccessivi oneri richiesti a fronte degli aiuti della Repubblica popolare, e questo ha provocato un drastico calo dei Paesi inseriti nel progetto. Alcuni Stati, come la Malesia, hanno cancellato progetti per un valore di 22 miliardi di dollari per incapacità di ripagare gli interessi, mentre altri, come lo Sri Lanka, hanno dovuto richiedere il supporto del Fondo Monetario Internazionale per fronteggiare l’eccessiva mole di importazioni dalla Cina, impattanti negativamente sul proprio PIL.

Isabel Pepe