Come previsto le forze curdo-siriane sostenute dagli Stati Uniti, sono entrate sabato 17 febbraio 2019- all’interno dell’ultimo bastione controllato dallo Stato islamico. Si tratta di Baghuz, cittadina sulla sponda orientale dell’Eufrate che da settimane, era diventato il luogo dove si era organizzata l’ultima residuale resistenza dell’Isis. Con la caduta di questa ultima realtà territoriale controllata dall’Isis, si fanno sempre piu’ concrete le possibilità che gli Usa si ritirino completamente (o quasi) dal Siraq. Non è difficile immaginare cosa accadrà se avverrà questo disinpegno ma in ogi caso Donald Trump, pare non curarsi degli avvertimenti del Pentagono che prevede un ritorno al caos e la possibile rinascita del Califfato nel giro di 6 -12 mesi. Contestualmente, sulla stampa internazionale si ritorna a discutere dei combattenti stranieri detti anche “foreign fighters”, che stanno o sono già tornati, nei loro paesi d’origine. Ma quanti erano coloro che sono partiti dall’Europa per unirsi alla bandiere nere dell’Isis? Secondo l’International Center for Counter Terrorism (Icct) i jihadisti europei sarebbero stati tra i 3.922 e i 4.294 dei quali 2.838, partiti da quattro Paesi europei: Belgio, Francia, Germania e Regno Unito. Molti di loro sono deceduti in battaglia ma sempre secondo l’Icct, circa il 30% di loro ( tra 1.176 e 1.288 individui) sono nuovamente tra noi con tutto cio’ che ne consegue in termini di pericolo per la sicurezza dell’Europa. Insieme alla parola foreign fighters negli ultimi anni, abbiamo appreso dell’esistenza di una categoria di individui denominati “lupi solitari” o “lone wolwes”, ovvero coloro che colpiscono all’improvviso individualmente, obbiettivi piu’ o meno sensibili. In molti si sono cimentati con la spiegazione di questo fenomeno. Di certo in lingua italiana tra le pubblicazioni piu’ riuscite vi è il libro di Cesare Giordano “Lupi Solitari- I percorsi della radicalizzazione e le strategie di contrasto” (edizioni Altravista). L’autore che è dottore di ricerca in Metodologia delle scienze sociali presso l’Università degli studi di Firenze, decrive con metodo scientifico tutte le tappe che portano questi individui a “rompere” con le loro esistenze per arrivare fino all’atto finale che spesso termina anche con la loro stessa morte. Cesare Giordano nel suo libro, affronta con grande intelligenza e pragmatismo tutte le fasi che determinano queste “rotture”, andando oltre i soliti luoghi comuni mostrando anche possibili misure di contrasto al fenomeno. Lo abbiamo incontrato in modo da farci descrivere il suo volume.

Mi può dare una sua definizione di lupo solitario?

La figura del lupo solitario si riferisce a un individuo che agisce individualmente, senza alcun collegamento con un’organizzazione terroristica, ma assumendo un’ideologia, elaborata autonomamente o di un gruppo terroristico, per giustificare le sue azioni violente.

Similmente alla figura del “terrorista solista” agisce individualmente e in nome di un’ideologia, ma a differenza di quest’ultimo non riceve ordini, indicazioni o supporto da un’organizzazione terroristica. Il suo modus operandi è, infatti, simile a quello del mass murderer, che realizza le sue azioni in piena autonomia, senza però avere, a differenza del lupo solitario, alcuna affiliazione ideologica

In sintesi la figura del lupo solitario denota un terrorismo ibrido, individuato dall’intersezione della figura del “terrorista solista” con quella del “mass murderer”, esemplificata dai tanti casi di school shooter riportati dalla cronaca o dal più noto caso di Andreas Lubitz, il pilota che, per motivazioni personali e senza alcun supporto esterno, ha dirottato il volo 9525 della Germanswings.

Come si arriva a questa condizione mentale, quali sono gli elementi che possono scatenare questa rottura?

Spesso si tende a pensare che le azioni dei lupi solitari siano il risultato di una propaganda tentacolare e ipnotica, capace di intercettare soggetti vulnerabili, indottrinarli e indurli così ad azioni efferate. In realtà la permeabilità dei lupi solitari all’ideologia jihadista non deriva da una propaganda straordinariamente persuasiva, ma da patologici tratti di personalità che, scompensati da eventi drammatici, spingono il soggetto alla ricerca di un’ideologia radicale. In un certo senso l’ideologia spinge i lupi solitari alle loro azioni, non più di quanto la “fede per la maglia” spinga gli ultras alla violenza negli stadi. Essa, cioè, è utilizzata pretestuosamente per giustificare azioni altrimenti folli.

Consideriamo, ad esempio, Mohammed Bouhlel, l’uomo che ha compiuto la strage di Nizza. Scavando nella sua biografia, emerge una personalità caratterizzata da tratti borderline e narcisisti. L’uomo, infatti, mostrava sintomi dissociativi, attacchi di rabbia, comportamenti impulsivi (uso di alcool e sostanze supefacenti), oltre ad avere una particolare attenzione per l’aspetto fisico, un atteggiamento da show-off e ad essere un conquistatore seriale, non solo di donne. Stando ai racconti del padre, la sua condizione mentale sarebbe precipitata dopo la separazione dalla moglie, un evento che potrebbe averlo scompensato e, a seguito de quale, potrebbe aver scelto la strada dell’attentato suicida.

Mohammed Bouhlel viveva quindi in modo completamente difforme dai precetti della sharia, aveva tratti di personalità patologici ed era precipitato in un loop di disperazione e rabbia dopo la separazione dalla moglie. L’Islam radicale gli era sconosciuto e persino nella fase più avanzata della sua deriva radicale, pochi giorni prima di compiere il suo attentato, aveva detto a un amico, riferendosi alla moglie: “Sentirà presto parlare di me!”. Le sue parole non fanno riferimento agli ‘infedeli’ o all’oppressione subita dai musulmani. L’obiettivo della sua folle vendetta era sua moglie, non l’Occidente.

Il caso di Bouhlel suggerisce quindi come il processo di radicalizzazione sia innescato da patologici tratti di personalità, esacerbati da eventi contingenti. I driver della radicalizzazione devono quindi essere rintracciati nel vissuto dei lupi solitari e non, almeno non solamente, nella ideologia jihadista.

Si discute molto delle carceri come luogo dove spesso si entra come delinquente comune e si esce come bestia feroce? Come evitarlo e con quali mezzi?

La deriva radicale di molti degli autori dei recenti attentati e dei foreign fighter partiti per la Siria si è realizzata negli istituti di pena. Le ragioni di ciò sono diverse.

In estrema sintesi è verosimile che in carcere si creino nicchie su base religiosa, dove confluiscono persone alla ricerca di una religione totalizzante, spesso interpretata in modo intransigente di rimbalzo alla propria carriera deviante, e animate da un profondo odio sociale. In questa situazione il jihad propagandato in carcere, da un lato offre ai detenuti musulmani una ‘prospettiva di redenzione’, dall’altro consente di vendicare il rifiuto e la loro umiliazione.

Il jihad intercetta così bisogni salienti per i detenuti musulmani, che hanno dimostrato di subirne la fascinazione in misura crescente negli ultimi anni. Come evitare la loro radicalizzazione è questione controversa. In Belgio, ad esempio, è previsto il regime d’isolamento per i soggetti arrestati per fatti di terrore. In questo caso essi possono interagire solo con altri detenuti in isolamento, in certe fasce orarie e sotto la stretta supervisione degli operatori penitenziari. L’idea è di ridurre al minimo le opportunità di contatto tra i soggetti già radicalizzati e il resto dei detenuti, così da evitare che il jihad infiltri il tessuto penitenziario ancora sano. In Germania, invece, i detenuti non sono sottoposti al regime d’isolamento, ma condividono gli stessi spazi degli altri reclusi, sebbene siano sottoposti a uno stringente monitoraggio da parte di agenti penitenziari opportunamente addestrati. Qui l’idea è di una sorveglianza attiva e, nel caso di segnali di radicalizzazione o di soggetti già radicalizzati, si attivano programmi mirati alla de-radicalizzazione, la cui ‘gittata’ va oltre il periodo detentivo, supportando il detenuto nella costruzione di una vita diversa da quella precedente la detenzione.

Lo spettro degli approcci all’estremismo islamico nelle carceri è ampio e varia da paese a paese. Ciascuno degli approcci presenta pregi e difetti. L’idea di isolare i soggetti già radicalizzati, ad esempio, se da un lato evita la possibilità di contagio di altri detenuti, dall’altro potrebbe esasperare la loro visione radicale, aumentando le loro probabilità di attivazione una volta rilasciati dagli istituti di pena. Si rischia, cioè, che la minaccia della radicalizzazione “cacciata dalla porta, rientri dalla finestra”. D’altra parte l’idea della sorveglianza attiva, se evita l’esasperazione dei soggetti in isolamento, potrebbe esporre il resto dei detenuti al rischio di proselitismo. Le ‘maglie’ del monitoraggio attivo, infatti, potrebbero gradualmente allentarsi per le limitate risorse di personale, tempo, formazione, oltre che per l’irriducibile difficoltà di sorvegliare scenari complessi, come per esempio quello delle carceri francesi.

L’incertezza degli effetti dei programmi di contrasto alla radicalizzazione richiede l’avvio di ricerche tese a valutarne l’efficacia nel breve e medio termine. L’utilizzo di disegni di ricerca sperimentali o quasi-sperimentali fornirebbe evidenza dirimente sul reale impatto di tali programmi, fornendo preziose indicazioni per la formulazione di best practise. Soprattutto, la questione della radicalizzazione in carcere, per quanto insidiosa, dovrebbe essere considerata come un’opportunità (e non come un problema) per il contrasto all’estremismo islamico. Essa, infatti, si realizza in un setting in cui i soggetti radicalizzati sono spesso noti, facilmente monitorabili e, con i giusti accorgimenti, condizionabili. Tali aspetti sono esclusi in altre situazioni, come quella dei lupi solitari che, per la loro natura “under the radar”, rimangono anonimi, difficilmente monitorabili e, men che meno, condizionabili. In questa prospettiva la sfida alla radicalizzazione non si esaurisce con la detenzione, ma inizia proprio da qui!

A livello europeo qual è il paese che ha più problemi con l’estremismo islamico negli istituti di pena? Molti sostengono sia la Francia. È così?

L’estremismo islamico rappresenta oggi la peggior insidia del sistema penitenziario francese, colpito più di ogni altro in tutta Europa. Basti pensare che nel 2017 su un totale di 705 arresti ascrivibili al terrorismo jihadista, eseguiti in 18 paesi europei, ben 373 sono stati effettuati in Francia. A ciò si aggiunge che la gran parte dei soggetti arrestati non può essere espulsa, poiché si tratta di persone aventi cittadinanza francese. La Francia ha quindi un numero maggiore di soggetti arrestati per fatti di terrorismo e una minore possibilità di decretarne l’espulsione.

Nel 2018 le persone detenute per reati di terrorismo, inclusi i returnee, erano 512 e altri 1139 detenuti erano segnalati come soggetti radicalizzati. Numeri preoccupanti, da ‘leggere’ alla luce di un’altra evidenza: a fronte di una presenza musulmana dell’otto/dieci per cento nella popolazione francese, i detenuti musulmani rappresentano circa il sessanta per cento (le stime variano) dell’intera popolazione penitenziaria. Ciò significa che l’opera di proselitismo può contare su di un ‘pubblico’ tanto ampio quanto specifico; esso, infatti, oltre ad essere numericamente consistente, è composto da soggetti musulmani, caratterizzati da condotte antisociali e da una salute mentale spesso precaria, gravata dalla vita penitenziaria. Caratteristiche, quest’ultime, che lo rendono un target d’elezione per il proselitismo dei predicatori jihadisti.

Inoltre la strabordante presenza di musulmani all’interno degli istituti di pena rafforza la loro diffusa percezione di rifiuto, rinsaldando quella dicotomia ‘noi-loro’, sfruttata subdolamente dai predicatori per fomentare l’odio contro gli “infedeli”. Essi, infatti, riescono ad agganciare il rifiuto esperito individualmente dai detenuti alla più ampia oppressione dei musulmani, dovuta, per esempio, all’intervento militare francese in Siria. In tal modo il dramma individuale della detenzione trova una prospettiva collettiva, un capro espiatorio comune, attorno al quale si coagula l’odio sociale di una parte dei musulmani detenuti nelle carceri francesi.

Secondo lei l’Italia specie in periferia, rischia con le seconde generazioni nate da immigrati, di vedere mutare le proprie condizioni di sicurezza?

È noto come gran parte degli autori dei recenti attentati così come molti dei foreign fighter europei partiti per la Siria appartenesse alle seconde generazioni, composte da soggetti nati in paesi occidentali da genitori che vi erano precedentemente migrati.

In Italia, come ben osservato da Lorenzo Vidino, i primi migranti musulmani sono arrivati da celibi negli anni novanta e, a differenza di altri paesi europei investiti dagli stessi flussi diversi anni prima, solo di recente è iniziata a emergere una seconda generazione musulmana. In un futuro prossimo assisteremo quindi a una ‘maturazione demografica’ delle seconde generazioni e con essa potrebbe aumentare il bacino di soggetti sensibile alla propaganda jihadista.

L’utilizzo del ‘condizionale’ è però d’obbligo, se non altro per una ragione di ordine logico-insiemistico. Infatti, è l’insieme delle seconde generazioni a contenere (in buona misura) quello degli attentatori di matrice islamica e non viceversa. Ciò significa che se gran parte dei recenti attentatori proviene dalle seconde generazioni, non è detto che gran parte delle seconde generazioni sia composta da attentatori o da aspiranti tali. Ne consegue che a un consolidamento demografico delle seconde generazioni non necessariamente corrisponderà un aumento dei soggetti a rischio radicalizzazione. È un’eventualità certamente probabile, ma non necessaria, quindi evitabile. Se e quando essa si realizzerà, dipenderà molto da ciò che faremo per evitarla.