«Forse la nostra cecità ha contribuito al piano; forse questo crimine di Stato senza precedenti nei tempi moderni, è stato possibile solo perché il suo autore sapeva (o credeva…) che sarebbe stato sostenuto, a qualunque costo, da un Occidente pronto a chiudere entrambi gli occhi, a giocare tutti i giochi pur di continuare a fare affari con questo Paese mostruosamente strategico che è l’Arabia Saudita; forse, sì, questa incommensurabile violenza non sarebbe stata concepita se la rana gonfia di petrolio non si fosse saputa al sicuro sulla testa del bue americano e delle sue montagne di dollari. Tra gli eredi degli imperi persiano, ottomano e arabo, è in ballo la leadership politica e morale dell’Islam: non discredita, anzi, rende onore ai musulmani dire e ripetere che né Teheran, né Ankara o Riad, sono degne di questa missione – e che tra gli assassini dei curdi e quelli di Khashoggi oggi non c’è nulla da scegliere».

Sono parole al vetriolo quelle di Bernard-Henri Lévy, il filosofo giornalista e saggista francese, che torna sulla vicenda del collega del Washington Post, barbaramente ucciso nel consolato del regno saudita a Istanbul. Il suo j’accuse, stavolta, è tutto in un semplice ragionamento sull’abitudine dannosa che le persone e i mass media hanno fatto all’orrore e alla violenza dei nostri giorni. Una violenza che, particolarmente in Medio Oriente, mostra prepotentemente tutte le sue sfaccettature: dalla guerra senza fine all’omicidio di Stato (se così sarà provato nella vicenda Khahsoggi).

Il punto è però un altro: «possiamo mettere allo stesso livello degli ayatollah iraniani o del neo-sultano Erdogan, questo giovane principe modernista che apre cinematografi e concede la patente alle donne?» si domanda Lévy. La sua risposta è affermativa: «La festa è finita» dice. Sarà davvero così? In questo numero, abbiamo ricostruito numerosi aspetti delle vicende che gravitano intorno alla trasformazione in atto dell’Arabia Saudita, da monarchia assoluta e oscurantista a reame illuminato e innovatore.

Quale delle due anime prevarrà sull’altra, è forse presto per dirlo. Ma se la geopolitica non mente, presto sapremo chi in questa lotta senza quartiere avrà prevalso: se cioè il caso Khashoggi dovesse configurarsi come un retaggio, uno strascico di ciò che i Saud non possono e non devono fare più permettersi di fare nell’ottica di modernizzare il paese, o se al contrario la sua fine ingloriosa si trascinerà dietro il cadavere politico del giovane Mohammed Bin Salman (MBS), spezzando il cuore di Re Salman e distruggendo dall’interno l’Arabia Saudita. Uno scenario, quest’ultimo, dalle conseguenze così pericolose e incerte da cancellare del tutto la già precaria stabilità di questa regione del mondo. Sulla figura di MBS, dunque, si gioca la partita per il futuro del Medio Oriente.

Editoriale del numero 3 di Babilon