Oman: come restare indipendenti dalle insidie del Golfo

«Resteremo nel solco tracciato dal compianto Sultano, riaffermando i fondamenti della nostra politica estera, fondati sulla pacifica coesistenza con le nazioni, sul buon vicinato, la non interferenza negli affari degli altri e il rispetto della sovranità dei paesi». Questo era stato per quasi mezzo secolo l’Oman di Qaboos bin Said, lo scomparso sultano, in una penisola arabica e in un Golfo di lupi, conflitti, avidità energetiche e ambizioni geopolitiche.

Alle frontiere occidentali dell’Oman c’è lo Yemen in guerra; a Est, oltre lo stretto di Ormuz, la repubblica islamica sciita d’Iran; a Nord il regno sunnita dell’ambizioso principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Poi il Qatar che ha mire regionali come fosse grande quanto un Egitto, gli Emirati che mandano l’aviazione a bombardare la lontana Libia. Intanto Qaboos invitava a Muscat, la sua capitale, israeliani e palestinesi, americani e iraniani, talebani, hezbollah, ceceni; teneva a bada i sauditi e permetteva al Qatar, sotto sanzioni saudite, di esportare gas attraverso i suoi porti senza che a Riyad o Abu Dhabi rompessero le relazioni anche con l’Oman.

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Qaboos, l’uomo così rispettato che nel 1970 aveva “trasformato un territorio in uno stato”, è morto quest’anno, a gennaio. Caso unico in Medio Oriente dove i pretendenti a un trono regale o repubblicano spesso sono troppi, non aveva figli né fratelli. Solo cugini fra i quali lui, ottantenne e malato, aveva da tempo scelto il successore. Il nome era in una lettera custodita dal Consiglio di Difesa, e aperta solo dopo la morte di Qaboos. Il nuovo sultano è il cugino Haitham bin Tarik. Il 18 novembre è stato lui a tenere il discorso dell’Independence Day – il primo in 50 anni che non fosse pronunciato da Qaboos – ribadendo la sovranità della politica estera del sultanato.

Non sarà così facile. Forse Haitham non ha ancora la gravitas del predecessore. Ma è soprattuto il 2020, con le sue sventure, a rendere incerte le sue promesse: la morte del “simbolo dell’unità nazionale, suo guardiano e difensore” (cioè Qaboos come è chiamato nella Legge Fondamentale della nazione), il Covid-19 con le sue devastanti conseguenze economiche. E infine la folle guerra sul prezzo e la produzione del barile che a primavera, in piena pandemia, l’immaturo principe ereditario saudita aveva ingaggiato contro i russi e lo shale oil americano.

L’Oman è il diciannovesimo produttore mondiale di petrolio (953mila barili al giorno), solo il ventiduesimo per riserve provate (4,8 miliardi di barili). Ma gli idrocarburi continuano a garantire l’80% delle entrate del bilancio nazionale e ad essere essenziali alla stabilità del paese. Dopo aver perso l’uomo che era contemporaneamente sultano, premier, ministro di Esteri, Difesa e Finanze, presidente della Banca centrale e comandante in capo delle forze armate – il cui compleanno era e rimane giorno di festa nazionale – sono arrivati il Covid con il conseguente crollo della domanda petrolifera e, subito dopo, le spropositate ambizioni saudite.

Nel 2019 fino a fine settembre di quell’anno, l’Oman produceva 222 milioni d barili; nello stesso periodo del 2020, i barili sono scesi a 215 milioni: ad un valore attorno ai 40 dollari, quando il break-even omanita è a 82. A quel prezzo il deficit fiscale che l’anno scorso era il 7% del Pil, alla fine di questo rischia di salire al 18. Per equilibrare un bilancio dello stato sempre più difficile da chiudere, oggi il barile di petrolio dovrebbe essere venduto a 105 dollari.

Logistica, data la posizione geografica e turismo, data la spettacolare bellezza naturale del paese, erano stati i due punti forti dell’iniziale tentativo di diversificazione. Ma la pandemia ha colpito quei due settori forse anche più degli idrocarburi.

Ed ecco che l’autonomia di giudizio e di comportamento sul caos mediorientale diventa più difficile da difendere, davanti alle concrete e forse non gratuite lusinghe economiche dei vicini e dei paesi più lontani. Il Qatar ha garantito un aiuto finanziario diretto da un miliardo di dollari. Anche gli Emirati Arabi Uniti daranno probabilmente un cospicuo contributo per attenuare la crisi economica dell’Oman. I rapporti fra i due paesi sono storicamente mediocri ma ad agosto il nuovo sultano ha sostituito il ministro degli Esteri Yussuf bin Alawi con il più giovane Badr al Busaidi. Le cariche ministeriali più importanti, come appunto gli esteri, erano ricoperte da Qaboos. Ma lui dettava la linea: anche ai suoi tempi la gestione reale del dicastero veniva però lasciati a coloro che venivano chiamati “ministri in responsabilità”.

Forse quello fra Alawi e al Busadi è stato solo un ricambio generazionale ma il secondo viene percepito come “meno ostile” del predecessore (e del vecchio sultano) verso l’ambizioso protagonismo degli Emirati. Per 23 anni Alawi era stato il fedele esecutore dell’equidistanza geopolitica professata e praticata da Qaboos.

Anche la Cina preme. Compra il 90% del petrolio che l’Oman esporta ed è il principale investitore/esecutore delle più importanti opere infrastrutturali nell’energia e nella logistica. La posizione geografica dell’Oman è fondamentale per la realizzazione di Obor (One Belt One Road): la Via ella seta cinese, il gigantesco piano commerciale-infrastrutturale che fatica a nascondere le sue sottintese ambizioni geopolitiche.

Non è facile essere attivamente neutrali in questa parte del mondo: il Medio Oriente è così ricco di opportunità economiche e contemporaneamente capace di essere anche il primo produttore mondiale d’instabilità.

La pandemia e le sue conseguenze hanno rallentato le promesse di “Oman Vision 2040”, cioè il piano di cosa e come dovrà essere il paese entro un margine temporale relativamente vicino. Ufficialmente inizierà a gennaio con l’avvio del decimo Piano quinquennale. L’importanza dell’evento sarà tuttavia oscurata dalla congiuntura – Covid più prezzo del barile più crisi economica – e dalle necessità imposte dal Medium-Term Fiscal Balance Plan (2020-2024): una nuova Iva al 5%, 10% di riduzione degli stipendi nel settore pubblico. Per ora, nella speranza che il barile di petrolio si stabilizzi almeno ai 58 dollari calcolati in Bilancio.

Quasi tutti i paesi della regione hanno realizzato una visione sul futuro, il cui scopo primario è sempre lo stesso: uscire dalla dipendenza dal petrolio. Si presume che dopo la pandemia l’uscita dagli idrocarburi diventerà una necessità ancora più impellente di prima. Gli Emirati, soprattutto Dubai e Abu Dhabi che avevano incominciato molto prima degli altri, sono esempi di successo.

Anche l’Oman aveva iniziato molto tempo fa. All’inizio del secolo era già stata avviata una “Vision 2020”. La dipendenza dal petrolio avrebbe dovuto scendere al 9% del Pil e gli investimenti stranieri salire al 10. Non è accaduto. Per diverse ragioni: la burocrazia, i complessi equilibri tribali, i finanziamenti necessari, la difficoltà di affrontare e realizzare qualsiasi riforma. John Mainard Kenes non è di casa nel Golfo ma la sua constatazione – «La difficoltà non è nelle nuove idee ma nel fuggire da quelle vecchie» – è universale.

Nel ventennio precedente, tuttavia, l’Oman ha costruito alcune importanti infrastrutture; molte imprese straniere sono venute a saggiare il paese (le italiane sono 67: energia, progettazione, engineering, turismo, servizi); e dagli errori in genere s’impara. Le rivolte giovanili delle Primavere arabe hanno riguardato anche l’Oman, sia pure brevemente. Ma un paese di cinque milioni di abitanti nel quale ogni anno 50mila giovani entrano nel mercato del lavoro, non può scherzare col suo futuro.

Di Ugo Tramballi, vai al post su Facebook