Birmania (Myanmar)

Asia sud-est
Aggiornato maggio 2021 - Dopo il dominio britannico dalla metà dell'800, il Paese divenne una repubblica indipendente nel 1948. Con l’indipendenza, i vari gruppi etnici rivendicarono uno Stato federale e dettero avvio a una guerriglia protrattasi fino agli anni Novanta. Nel 1962 un colpo di Stato militare mise fine alla democrazia. Una rivolta – conosciuta come rivolta “8888” – fu repressa nel sangue nel 1988 e venne imposta la legge marziale a seguito di un nuovo colpo di Stato militare. In questa occasione, venne anche imposto dai militari il nome Myanmar perché “Birmania” era ritenuto troppo legato all’etnia bamar. Durante questo periodo emerse la figura politica di Aung San Suu Kyi, leader del maggior partito di opposizione, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD). Nelle elezioni del 1990, la stragrande maggioranza dei seggi parlamentari furono vinti dall’NLD, ma l’esercito si rifiutò di riconoscere il risultato e San Suu Kyi venne arrestata. Rilasciata nel 1995 e poi arrestata nuovamente nel 2000 e nel 2003, è stata infine liberata definitivamente nel 2010. Le sanzioni economiche della comunità internazionale spinsero nel 2008 la giunta a promulgare una nuova Costituzione, che tuttavia manteneva il potere ben saldo nelle mani dei militari a cui venivano garantiti la maggior parte dei seggi, la scelta del governo e i ministeri chiave. Nel 2010, l’NLD si rifiutò di partecipare alle elezioni che vennero definite una “farsa” dalla comunità internazionale. Alle elezioni del 2012, l’NLD ha ottenuto 43 dei 45 seggi disponibili. Nel 2013 Aung San Suu Kyi è stata rieletta alla testa del suo partito in corsa alle elezioni del 2015. L’esito, esattamente come quello delle elezioni successive del 2020, è stato la maggioranza assoluta dei seggi per l’NLD. Tuttavia, anche se il partito è descritto come portatore di democrazia e buon governo, sono tante le ombre che si celano dietro alle sue attività. L’ex Birmania è un paese composto da una moltitudine di minoranze etniche, tra le quali quelle più scomode si vedono sbarrare l’accesso nel tentativo di andare a votare. La sistematica repressione dei Rohingya, che secondo diverse indagini acquisisce il nefasto termine di pulizia etnica, è avvenuta anche sotto il governo di Aung Suu Kyi, premio nobel per la pace nel 1991, che ha sempre adottato posizioni non del tutto tolleranti, nei confronti delle minoranze. E proprio con questi pretesti, uniti ad un’accusa di aver violato la legge sull’import-export, l’esercito è tornato alla ribalta, arrestando senza processo la leader del NLD, ed altri esponenti della politica birmana. L’uno di febbraio è stato infatti messo a segno un vero e proprio colpo di stato, con cui l’esercito ha ripreso possesso del potere. Da quel momento sono iniziati moti di piazza per il ripristino della democrazia, al cui l’esercito ha risposto con il pugno duro e con l’istituzione dello stato d’emergenza fino a fine anno. L’occidente in toto si è dimostrato contrario al colpo inflitto dai militari alla transizione del paese verso lo stato di diritto, minacciando e infliggendo sanzioni, che tuttavia non stanno portando agli esiti sperati. Più ambigua invece la posizione della Cina, che non si esprime sui diritti umani, in quanto la strategicità del Myanmar nello sviluppo della “Nuova Via della Seta” è di vitale importanza ed impone cautela diplomatica.
Le risorse del Myanmar sono principalmente teak (di cui è il più grande esportatore), giada, perle, rubini e zaffiri. Inoltre, possiede vasti depositi offshore di gas e petrolio. Gran parte del territorio è fertile ed in effetti l’agricoltura è il settore dominante che dà lavoro ad oltre il 70% della popolazione. Nonostante la disponibilità di risorse, l’economia rimane tra le più sottosviluppate a causa di decenni di stagnazione, politiche economiche fallimentari, corruzione e isolamento internazionale. Le riforme verso una maggiore apertura del mercato interno cominciate nel 2010, e che hanno consentito una parziale privatizzazione, non hanno portato a risultati determinanti per invertire il trend economico. In ripresa il settore energetico (gas) e quello del turismo, ma la crisi finanziaria ha avuto ripercussioni sulle rimesse estere e sulle esportazioni. Dopo la fase di apertura del 2011 e l’uscita dall’isolazionismo diplomatico in cui risiedeva, lo stato ha cominciato a registrare segni positivi nella crescita economica. Gli investimenti diretti esteri erano in sostanziale aumento, come anche i tassi di crescita, soprattutto fino al 2016. Si stava avviando una parabola di aumento della competitività, grazie ad una serie di riforme strutturali soprattutto nel campo delle telecomunicazioni e del settore finanziario. Purtroppo, lo stato ha poi dovuto fare i conti con infrastrutture obsolete, un basso livello d’istruzione e una scarsa produttività del lavoro. Proseguendo inoltre con le continue intromissioni dell’esercito negli affari di stato, che deterioravano la credibilità del Myanmar agli occhi degli investitori e generavano distorsioni di mercato. La situazione è precipitata col golpe militare, creando nuove sacche di povertà, inflazione ai massimi livelli e una potenziale situazione di rischio umanitario, per tutti coloro a cui appare difficoltoso l’approvvigionamento di cibo e carburante. La condizione era già critica a causa della pandemia, ma ora ogni indicatore economico fa presagire il peggio.
Le violazioni dei diritti umani sono da decenni al centro dell’attenzione internazionale. Al di là dell’assenza di libertà politiche e civili, il reclutamento dei bambini tra le fila dell’esercito, il lavoro forzato e il traffico di droga e di persone rappresentano una delle maggiori criticità. Dal punto di vista politico sussistono ancora tensioni di tipo etnico (soprattutto nelle aree di confine) che il regime ha tentato di reprimere nel corso degli anni. Le etnie, circa 135, rappresentano il 30% della popolazione totale e da decenni rivendicano maggiori libertà ed autonomia. Tra le principali gli shan, i karen, i chin, i mon, i rakhine e i kachin. Molti gruppi che sono ricorsi alla guerriglia hanno accettato una tregua e alcuni hanno costituito dei movimenti politici di opposizione. Viene considerato alto il rischio terrorismo e la corruzione che si accompagna al sistema è anch’essa fra le cause principali del mancato sviluppo economico. I militari rappresentano ancora la forza dominante, come rappresentato dal colpo di stato militare orchestrato a febbraio, con cui hanno ripreso il potere. Il clima di guerriglia perenne per le strade del Myanmar, successivamente al golpe, incatena il paese ad una condizione di estrema pericolosità ed incertezza. I morti e i feriti continuano ad aumentare, soprattutto da quando gli scontri hanno visto il riaccendersi delle vecchie rivalità tra esercito e gruppi armati delle minoranze etniche, che hanno rimbracciato le armi, per cambiare le sorti di questa vera e propria guerra civile. Le condizioni critiche della popolazione hanno generato nuovi flussi migratori, sia interni che esterni. Per invertire l’escalation sembra quanto mai necessaria un’azione concreta da parte della comunità internazionale, che al momento non registra altro che sanzioni e prese di posizione teoretiche.
Capitale: Naypyidaw
Ordinamento: regime militare, stato d'emergenza
Superficie: 676.578 km²
Popolazione: 54.700.104
Religioni: buddista (89%), cristiana (4%)
Lingue: birmano
Moneta: kyat (MMK)
PIL: 4,497.116 USD (PIL pro capite PPA prezzi costanti)
Livello di criticità: Alto
Aggiornato maggio 2021 - Dopo il dominio britannico dalla metà dell'800, il Paese divenne una repubblica indipendente nel 1948. Con l’indipendenza, i vari gruppi etnici rivendicarono uno Stato federale e dettero avvio a una guerriglia protrattasi fino agli anni Novanta. Nel 1962 un colpo di Stato militare mise fine alla democrazia. Una rivolta – conosciuta come rivolta “8888” – fu repressa nel sangue nel 1988 e venne imposta la legge marziale a seguito di un nuovo colpo di Stato militare. In questa occasione, venne anche imposto dai militari il nome Myanmar perché “Birmania” era ritenuto troppo legato all’etnia bamar. Durante questo periodo emerse la figura politica di Aung San Suu Kyi, leader del maggior partito di opposizione, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD). Nelle elezioni del 1990, la stragrande maggioranza dei seggi parlamentari furono vinti dall’NLD, ma l’esercito si rifiutò di riconoscere il risultato e San Suu Kyi venne arrestata. Rilasciata nel 1995 e poi arrestata nuovamente nel 2000 e nel 2003, è stata infine liberata definitivamente nel 2010. Le sanzioni economiche della comunità internazionale spinsero nel 2008 la giunta a promulgare una nuova Costituzione, che tuttavia manteneva il potere ben saldo nelle mani dei militari a cui venivano garantiti la maggior parte dei seggi, la scelta del governo e i ministeri chiave. Nel 2010, l’NLD si rifiutò di partecipare alle elezioni che vennero definite una “farsa” dalla comunità internazionale. Alle elezioni del 2012, l’NLD ha ottenuto 43 dei 45 seggi disponibili. Nel 2013 Aung San Suu Kyi è stata rieletta alla testa del suo partito in corsa alle elezioni del 2015. L’esito, esattamente come quello delle elezioni successive del 2020, è stato la maggioranza assoluta dei seggi per l’NLD. Tuttavia, anche se il partito è descritto come portatore di democrazia e buon governo, sono tante le ombre che si celano dietro alle sue attività. L’ex Birmania è un paese composto da una moltitudine di minoranze etniche, tra le quali quelle più scomode si vedono sbarrare l’accesso nel tentativo di andare a votare. La sistematica repressione dei Rohingya, che secondo diverse indagini acquisisce il nefasto termine di pulizia etnica, è avvenuta anche sotto il governo di Aung Suu Kyi, premio nobel per la pace nel 1991, che ha sempre adottato posizioni non del tutto tolleranti, nei confronti delle minoranze. E proprio con questi pretesti, uniti ad un’accusa di aver violato la legge sull’import-export, l’esercito è tornato alla ribalta, arrestando senza processo la leader del NLD, ed altri esponenti della politica birmana. L’uno di febbraio è stato infatti messo a segno un vero e proprio colpo di stato, con cui l’esercito ha ripreso possesso del potere. Da quel momento sono iniziati moti di piazza per il ripristino della democrazia, al cui l’esercito ha risposto con il pugno duro e con l’istituzione dello stato d’emergenza fino a fine anno. L’occidente in toto si è dimostrato contrario al colpo inflitto dai militari alla transizione del paese verso lo stato di diritto, minacciando e infliggendo sanzioni, che tuttavia non stanno portando agli esiti sperati. Più ambigua invece la posizione della Cina, che non si esprime sui diritti umani, in quanto la strategicità del Myanmar nello sviluppo della “Nuova Via della Seta” è di vitale importanza ed impone cautela diplomatica.
Le risorse del Myanmar sono principalmente teak (di cui è il più grande esportatore), giada, perle, rubini e zaffiri. Inoltre, possiede vasti depositi offshore di gas e petrolio. Gran parte del territorio è fertile ed in effetti l’agricoltura è il settore dominante che dà lavoro ad oltre il 70% della popolazione. Nonostante la disponibilità di risorse, l’economia rimane tra le più sottosviluppate a causa di decenni di stagnazione, politiche economiche fallimentari, corruzione e isolamento internazionale. Le riforme verso una maggiore apertura del mercato interno cominciate nel 2010, e che hanno consentito una parziale privatizzazione, non hanno portato a risultati determinanti per invertire il trend economico. In ripresa il settore energetico (gas) e quello del turismo, ma la crisi finanziaria ha avuto ripercussioni sulle rimesse estere e sulle esportazioni. Dopo la fase di apertura del 2011 e l’uscita dall’isolazionismo diplomatico in cui risiedeva, lo stato ha cominciato a registrare segni positivi nella crescita economica. Gli investimenti diretti esteri erano in sostanziale aumento, come anche i tassi di crescita, soprattutto fino al 2016. Si stava avviando una parabola di aumento della competitività, grazie ad una serie di riforme strutturali soprattutto nel campo delle telecomunicazioni e del settore finanziario. Purtroppo, lo stato ha poi dovuto fare i conti con infrastrutture obsolete, un basso livello d’istruzione e una scarsa produttività del lavoro. Proseguendo inoltre con le continue intromissioni dell’esercito negli affari di stato, che deterioravano la credibilità del Myanmar agli occhi degli investitori e generavano distorsioni di mercato. La situazione è precipitata col golpe militare, creando nuove sacche di povertà, inflazione ai massimi livelli e una potenziale situazione di rischio umanitario, per tutti coloro a cui appare difficoltoso l’approvvigionamento di cibo e carburante. La condizione era già critica a causa della pandemia, ma ora ogni indicatore economico fa presagire il peggio.
Le violazioni dei diritti umani sono da decenni al centro dell’attenzione internazionale. Al di là dell’assenza di libertà politiche e civili, il reclutamento dei bambini tra le fila dell’esercito, il lavoro forzato e il traffico di droga e di persone rappresentano una delle maggiori criticità. Dal punto di vista politico sussistono ancora tensioni di tipo etnico (soprattutto nelle aree di confine) che il regime ha tentato di reprimere nel corso degli anni. Le etnie, circa 135, rappresentano il 30% della popolazione totale e da decenni rivendicano maggiori libertà ed autonomia. Tra le principali gli shan, i karen, i chin, i mon, i rakhine e i kachin. Molti gruppi che sono ricorsi alla guerriglia hanno accettato una tregua e alcuni hanno costituito dei movimenti politici di opposizione. Viene considerato alto il rischio terrorismo e la corruzione che si accompagna al sistema è anch’essa fra le cause principali del mancato sviluppo economico. I militari rappresentano ancora la forza dominante, come rappresentato dal colpo di stato militare orchestrato a febbraio, con cui hanno ripreso il potere. Il clima di guerriglia perenne per le strade del Myanmar, successivamente al golpe, incatena il paese ad una condizione di estrema pericolosità ed incertezza. I morti e i feriti continuano ad aumentare, soprattutto da quando gli scontri hanno visto il riaccendersi delle vecchie rivalità tra esercito e gruppi armati delle minoranze etniche, che hanno rimbracciato le armi, per cambiare le sorti di questa vera e propria guerra civile. Le condizioni critiche della popolazione hanno generato nuovi flussi migratori, sia interni che esterni. Per invertire l’escalation sembra quanto mai necessaria un’azione concreta da parte della comunità internazionale, che al momento non registra altro che sanzioni e prese di posizione teoretiche.