Chi sa se Elizabeth Warren, la senatrice del Massachusetts candidata alle primarie del Partito Democratico statunitense, ha già immaginato passo dopo passo il suo percorso per vincere le primarie. O magari la strada da fare per arrivare alla Casa Bianca. Chi sa se ha davvero già un piano. D’altra parte, è il suo stesso slogan “Warren has a plan for that” che lo suggerisce. Uno slogan nato dalla capacità di essere sempre preparata su tutti gli argomenti, su tutte le criticità, praticamente su tutto. Elizabeth Warren ha sempre un piano, appunto. E, necessariamente, avrà già programmato il suo intervento durante il quarto grande dibattito tra i candidati del partito dell’Asinello che si terrà il prossimo 15 ottobre, al quale arriva da favorita. Non necessariamente in valore assoluto, ma sicuramente come la candidata che sta viaggiando meglio negli ultimi sondaggi, quella che ha il miglior momentum, per usare un’espressione tipica del dibattito politica statunitense.

Il dibattito si terrà il 15 ottobre in Ohio, a Westerville, uno di quegli Stati del Midwest che votò in maggioranza, seppur risicata (poco più del 51%), Donald Trump alle scorse elezioni. C’è da immaginare che l’Ohio tornerà ad essere decisivo anche alle prossime presidenziali. Quindi, il prossimo è un dibattito importante. Ci saranno 12 candidati sul palco. Ma già adesso c’è un solco tra i primi tre e tutti gli altri. Sono l’ex vicepresidente Joe Biden, il senatore del Vermont Bernie Sanders, già sfidante di Hillary Clinton alle ultime primarie, e la stessa Elizabeth Warren. Sarà uno di loro tre che verosimilmente concorrerà per la Casa Bianca tra poco più di un anno. Saranno loro ad avere i riflettori puntati contro a Westerville, perché sono loro ad aver la maggiore urgenza di successi fin dalle prime tornate elettorali, mentre gli altri possono permettersi di recuperare punti strada facendo, avendo meno pressione (anche mediatica) sulle spalle.

In questo senso Warren sembra quella nel momento migliore. La senatrice nata e cresciuta nell’Oklahoma ha 70 e deve la sua immagine politica alle lotte al fianco dei consumatori – contro diverse multinazionali – all’inizio del nuovo millennio, e all’amministrazione Obama: fu il 44° Presidente Usa a sceglierla come responsabile di una nuova agenzia per la tutela dei consumatori, e ad agevolare il suo ingresso in politica nel 2013, quando venne eletta senatrice per il Massachusetts.

Warren ha posizioni di sinistra praticamente su qualsiasi cosa, ma non è la più estremista dei candidati in corsa. La tassazione ai super ricchi e la concorrenza sul mercato tra le aziende sono due delle battaglie che l’hanno resa riconosciuta e riconoscibile in tutti gli States. Ed è anche grazie a questi temi, così attuali, che oggi è in grande crescita nei sondaggi nei primi due Stati dove si voterà, l’Iowa e il New Hampshire. Ma è ancora distante dal costruirsi un elettorato fedele e numeroso che può portarla a vincere le primarie del partito.

Bernie Sanders, invece, ha una base di elettori solidissima ed è quello che ha ricevuto più soldi dalle donazioni fino a questo momento. È un politico di lungo corso e ha già partecipato ad una campagna elettorale lunga e impegnativa come quella del 2016. Le sue posizioni politiche, però, sono ancora più a sinistra di quelle di Warren e inevitabilmente fanno di lui un candidato fortemente divisivo che difficilmente riesce ad attrarre voti in altre aree dell’elettorato. In più, la settimana scorsa ha subito un intervento per l’occlusione di un’arteria dopo aver avvertito dolore al petto durante un comizio. Un momento che rischia di segnare uno spartiacque nella sua corsa verso la Casa Bianca: tra gli interrogativi che si porta dietro il senatore 78enne c’è, appunto, la sua età – sarebbe di gran lunga il presidente più anziano della storia – e, di conseguenza, i dubbi legati al suo stato di salute e alla possibilità di condurre una campagna elettorale sfiancante, oltre che l’eventualità di dover governare un Paese come gli Stati Uniti. In questo senso, un attacco cardiaco potrebbe aver minato una buona fetta di fiducia alla base della sua campagna elettorale.

Il terzo grande candidato per il Partito Democratico è indubbiamente quello che avrebbe avuto le maggiori probabilità di arrivare a correre per la Casa Bianca, ma lo scandalo relativo all’Ucraina potrebbe aver distrutto le sue chance di diventare Presidente. Joe Biden ha alle spalle una fondamentale esperienza da vicepresidente, al fianco di Barack Obama, un asset di grande valore che non può vantare nessun altro tra i candidati democratici. È lui a guidare i sondaggi su scala Nazionale. Ma sulla sua candidatura ci sono due grossi punti di domanda: come per Sanders, uno riguarda l’età (ha 76 anni) – complice anche un intervento non proprio brillante durante l’ultimo dibattito, nel quale diede risposte confuse, stanche, spesso fuori contesto; l’altro ha a che fare naturalmente con l’ombra lunga dell’Ucrainagate. Proprio la vicenda che ha dato il via al processo di impeachment di Trump ha acceso i riflettori su una macchia della carriera politica dello stesso Biden. Suo figlio Hunter accettò un lavoro molto ben pagato per una compagnia petrolifera ucraina pur non avendo qualifiche particolari, e proprio nel periodo in cui i rapporti tra Usa e Ucraina erano gestiti dal padre. La notizia non ha ancora avuto un effetto particolarmente negativo nei sondaggi, ma nel ungo periodo rischia di diventare un peso sulla campagna elettorale dell’ex vicepresidente. Ma, guardando da un’altra prospettiva, Ucrainagate potrebbe anzi aiutarlo, dandogli maggiore visibilità, secondo una logica tanto cara al Trump candidato presidente: non importa come si parla di un candidato, purché se ne parli.

Tutti gli altri candidati del Partito Democratico sono già staccati e sembrano destinati a una campagna elettorale che mirerà a far guadagnare loro punti per il futuro della loro carriera politica. Anche i due outsider che erano partiti meglio sembrano già sgonfiati. Il sindaco di South Bend (Indiana) Pete Buttigieg aveva guadagnato una buona dose di consensi immediatamente dopo l’annuncio della sua candidatura: aveva raccolto 7 milioni di dollari in circa tre mesi a inizio anno. La sua immagine di candidato giovane (37 anni) ricorda il Barack Obama che corse per la Casa Bianca nel 2008 elettrizzando molti tra le nuove generazioni. Inoltre, ha servito l’Esercito americano in Afghanistan, dove è rimasto per sette mesi, una credenziale importante per qualsiasi candidato. Ma soprattutto, in caso di elezione, diventerebbe il primo Presidente apertamente omosessuale, un dettaglio che peserebbe moltissimo per attirare i voti della comunità LGBTQ degli Usa. Ma la sensazione è che i temi principali su cui poggia la sua candidatura – l’opposizione all’amministrazione Trump sulle politiche riguardo il cambiamento climatico, il sistema sanitario e l’immigrazione – verranno ampiamente dibattuti da candidati più esperti e navigati di lui.

Discorso simile anche per la senatrice californiana Kamala Harris. Anche lei, come Buttigieg ha attirato fondi sufficienti per sostenere una campagna elettorale solida e duratura, e lo ha fatto grazie ad una comunicazione efficace (è molto attiva anche sui profili social). Ma sembrano esserci almeno tre ordini di motivi per cui la sua candidatura sembrerebbe già passata in secondo piano. Innanzitutto, le sue posizioni moderate rischiano di sovrapporsi a quelle di Joe Biden, con il quale non può competere in termini di elettorato. Allo stesso modo, il potenziale bacino di voti delle donne attualmente sembra essere più diretto verso Elizabeth Warren che verso la senatrice afroamericana. Inoltre a Haris mancherebbe quello spessore mediatico che può fare la differenza in una campagna elettorale che ha bisogno anche di spettacolarità. Un esempio su tutti riguarda gli slogan. Come ha spiegato il sito di statistiche FiveThirtyEight: «Buttigieg ha il suo “I’m young”, c’è Biden con il suo “I can beat Trump”, Sanders e Warren portano avanti il loro “I will take on the wealthy”, mentre la senatrice Harris non è riuscita a costruirsi un brand, un personaggio riconoscibile».

Infine, c’è un tema strettamente connesso al prossimo dibattito. Parte dell’elettorato afroamericano ha ribadito più volte il suo sostegno alla senatrice della California ma, almeno per il momento, il dibattito politico non sembra accendersi sulle questioni legate alla comunità afroamericana. Piuttosto, un tema centrale è quello dei lavoratori del Midwest, quella classe operaia bianca sfavorita dalla crisi che ha portato Trump alla Casa Bianca. E che adesso, delusa almeno in parte dell’operato del Presidente, potrebbe tornare a votare per il Partito Democratico.

AP PHOTO/JACQUELYN MARTIN, A packed race for the White House.