L’annunciato parziale ritiro delle truppe americane dalla Siria è stato interpretato da molti analisti come la decisione del presidente Trump di voler affidare ad altre potenze regionali l’onere di contrastare lo Stato Islamico. Una mossa che configurerebbe anche la remota possibilità di una rivitalizzazione del gruppo terroristico in una fase critica delle operazioni della coalizione internazionale.

Eppure, fino a pochi mesi fa, sembrava che gli USA volessero seguire una strategia diametralmente opposta. Lo scorso settembre il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, John Bolton, aveva dichiarato che le truppe americane sarebbero rimaste in Siria fino alla dipartita delle forze iraniane. Lo stesso Trump, dopo una conversazione con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, aveva annunciato la presenza di circa 2.000 soldati americani in Siria e confermato il sostegno alle milizie arabo-curde SDF (Forze Democratiche Siriane). Poco dopo la telefonata con Erdogan Trump twittò: “Ora l’ISIS è in gran parte sconfitto e altri Paesi locali, compresa la Turchia, dovrebbero essere in grado di prendersi cura di tutto ciò che rimane”. Aggiungendo poi che il leader turco gli aveva garantito che avrebbe sradicato in modo deciso “ciò che rimane dell’ISIS in Siria”.

Chi conosce anche in modo non approfondito il leader turco sa che c’è un errore di valutazione fondamentale in quelle dichiarazioni di Trump. Ankara ha infatti dimostrato spesso una evidente riluttanza a contrastare direttamente lo Stato Islamico, preferendo invece concentrare le sue energie e risorse sul contrasto ai curdi e all’opposizione al suo governo.

Per anni la Turchia, Paese che pretendeva di assumere un ruolo di guida in Medio Oriente, ha portato avanti un doppio gioco in Siria. L’obiettivo principale di Ankara è impedire ai curdi siriani di consolidare un loro Stato/provincia e stabilire un corridoio curdo al confine meridionale con la Turchia. Sradicare la presenza dello Stato islamico in Siria e le sue reti all’interno della Turchia è invece per Erdogan una priorità secondaria, che è stata spesso ignorata del tutto dal presidente turco.

Le vere priorità di Ankara

Il vero problema sono dunque le priorità di Ankara, che ruotano principalmente attorno al consolidamento del potere nelle mani di Erdogan e alla continua eliminazione di eventuali sospetti avversari politici, oltre che alla repressione dei militanti curdi, inclusi quelli del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) e dei loro alleati in Siria, le Unità di Protezione del popolo (YPG), milizia curda e forza combattente più rappresentativa nella coalizione arabo-curda anti ISIS SDF (Forze democratiche siriane).

Uno dei principali argomenti della Turchia, e un punto di contesa tra Ankara e Washington dall’inizio del coinvolgimento militare degli Stati Uniti in Siria, è che le Unità di protezione del popolo rappresentano per Erdogan un’estensione del PKK.

Dal momento che gli Stati Uniti sostenevano l’YPG in quanto, come detto, forza trainante delle SDF in funzione anti ISIS, l’argomentazione farneticante turca è che, così facendo, Washington essenzialmente sosteneva il terrorismo. Un’accusa che in questi ultimi anni la Casa Bianca ha sistematicamente rispedito al mittente essendo stato l’YPG il baluardo più efficace contro lo Stato Islamico, nonché l’alleato più affidabile sul terreno per gli USA e per la coalizione internazionale impegnata contro l’esercito del Califfato.

Senza dimenticare che affidarsi solamente al governo turco per combattere ISIS avrebbe rappresentato per gli USA un problema sia in termini di capacità militare che d’intenti. In questa guerra bisogna infatti continuare ad agire, ancora oggi, in due dimensioni: sul campo di battaglia in Siria e sradicando reti e piccole cellule di militanti jihadiste da tempo radicate nella stessa Turchia. Dopo gli attacchi di alto profilo ad Ankara, Istanbul e Gaziantep degli ultimi anni, lo Stato Islamico ha infatti dimostrato la sua portata e la sua capacità operativa in questo Paese.

Il collasso militare e territoriale del Califfato in Medio Oriente al momento è un punto a favore di Siria e Iraq, i due Paesi in cui il gruppo estremista ha mantenuto il suo “santuario”, ma è anche una minaccia per le nazioni in cui i combattenti in fuga si stanno trasferendo. In quest’ottica, il primo approdo per prossimità geografica e, forse in parte, ideologica è proprio la Turchia.

All’inizio del febbraio scorso il New York Times ha riferito che “migliaia” di combattenti dello Stato Islamico sono fuggiti dall’Iraq e dalla Siria mentre un numero considerevole “si sono nascosti in Turchia”. Queste rivelazioni non sono una novità. Un’intervista del 2016 del corrispondente del Times Rukmini Callimachi con un foreign fighter tedesco ha messo in evidenza che lo Stato Islamico ha deliberatamente inviato centinaia di suoi combattenti in Turchia.

I contrabbandieri su entrambi i lati del confine continuano a spostare le persone, compresi i combattenti di ISIS, avanti e indietro dalla Siria alla Turchia, in alcuni casi cercando di corrompere i combattenti curdi in modo che possano passare attraverso territori controllati dalle SDF.

Fu evidente due anni fa, il primo gennaio del 2017, in occasione dell’attacco terroristico dell’ISIS alla discoteca Reina di Istanbul. Un attacco che confermò come l’organizzazione terroristica avesse da tempo stabilito robuste cellule operative in Turchia.

Al momento ci sono due tipi di strutture terroristiche in Turchia: quelle composte da turchi e quelle gestite da combattenti stranieri. Le unità combattenti straniere consistono principalmente in militanti del Caucaso, turchi uiguri provenienti dalla Cina e asiatici originari dei Paesi dell’ex Unione Sovietica, nonché combattenti in fuga da Stati arabi ed europei islamici.

Istanbul ha una rilevanza storica per molti musulmani, essendo stata un tempo la sede di un Califfato sunnita. La Turchia potrebbe fungere, quindi, da centro logistico per organizzare futuri attacchi in Europa. A differenza di molti altri “santuari” terroristici, come l’Afghanistan, la Libia e la Somalia, la Turchia – anche se con grandi problemi interni – non è un “Failed State” ma un Paese appartenente alla NATO retto da un sistema democratico. Negli ultimi anni, nelle principali città, paesi e villaggi lungo il confine turco con Iraq e Siria si sono lentamente sviluppate sacche di sostegno per i gruppi jihadisti salafiti, inclusi Stato islamico e Al Qaeda. Si tratta di un pericolo ravvicinato per l’Europa e dunque anche per l’Italia, grave e da non sottostimare.

Da cosa dipende la futura stabilità della Turchia

La futura stabilità interna della Turchia dipenderà principalmente da due fattori: dal modo in cui potrebbe configurarsi il sostegno al jihad nella popolazione turca, così come nella crescente popolazione di rifugiati; dal processo per un’autonomia curda “transnazionale”. In questo contesto, la minaccia rappresentata dallo Stato Islamico è stata aggravata negli ultimi anni dalle purghe di Erdogan dopo il tentato golpe, da molti analisti ritenuto un “fake”, del luglio 2016.

Erdogan ha riconfigurato le forze dell’antiterrorismo e dell’intelligence, tra cui la polizia, la gendarmeria e considerevoli volumi organici dell’esercito. Di conseguenza, le nuove figure inserite in organico – relativamente inesperte – sono state incaricate di gestire le operazioni di antiterrorismo contro un avversario – al contrario – altamente preparato da anni di combattimenti in Siria e Iraq.

Anche questo fattore conferma che contrastare la minaccia dei terroristi legati allo Stato Islamico non è tra le priorità dell’agenda di Ankara. Ciò è apparso alquanto evidente nel momento in cui forze combattenti provenienti dall’ISIS stavano “aiutando” la Turchia combattendo contro i gruppi curdi nella zona di Afrin, nel nord della Siria.

La continua tolleranza, non belligeranza e – per alcuni – addirittura cooperazione tra la Turchia e frange di combattenti dello Stato islamico sul suolo turco, equivale a un sostegno passivo e a una gravissima approvazione tacita.

Il pericolo rappresentato da questi combattenti che usano la Turchia come “trampolino di lancio” verso l’Europa potrebbe trasformarsi in una minaccia molto più formidabile di quella che Ankara sbandiera come proveniente dal terrorismo curdo. “Tollerare” i terroristi di ISIS per combattere i curdi appare una politica pericolosa e miope. Si creeranno solamente maggiori problemi nelle relazioni già critiche tra Ankara, l’Unione Europea e gli Stati Uniti in materia di antiterrorismo, cooperazione e concessioni di viaggi senza visti.

Tra l’altro, qualora lo Stato Islamico dovesse arrivare a ottenere in Turchia il sostegno di una estesa “massa critica”, è molto probabile che l’organizzazione si rivolterà contro chi il Paese che la ospita. È già accaduto in passato, ad esempio in Pakistan, dove migliaia di militanti talebani, per anni tacitamente sostenuti dal governo di Islamabad, hanno poi sfogato la loro rabbia contro lo Stato pakistano e le sue forze di sicurezza.

Quando arriverà quel giorno, ospitare terroristi non rimarrà più fattibile per Ankara e per i suoi sostenitori. A quel punto, però, sarà forse troppo tardi spalancare loro le porte verso l’Occidente. La volontà di Erdogan di ignorare la minaccia dello Stato Islamico potrebbe essere pertanto la causa del suo tramonto politico.