Quanti dei quasi dieci milioni di afghani iscritti nelle liste elettorali saranno tanto coraggiosi da sfidare le minacce dei Talebani per andare a votare? In Afghanistan è giorno di elezione. Si vota per scegliere il nuovo presidente della Repubblica. In questo Paese, che dal 1979 è stato ininterrottamente dilaniato da guerre e guerriglie, queste elezioni presidenziali ci diranno in quale direzione va realmente l’Afghanistan. Non sono mancati i primi attentati a poche ore dall’apertura dei seggi: almeno 2 persone sono morte e 15 persone sono rimaste ferite ad un seggio elettorale allestito all’interno di una moschea a Kandahar, nel sud dell’Afghanistan.

I motivi per essere pessimisti sono numerosi. I precedenti, peraltro, non depongono certo a favore di chi spera di veder questa martoriata terra avviare un genuino processo di democratizzazione. Finora le elezioni presidenziali sono sempre state la cronaca di un insuccesso annunciato. Macchiate da frodi, brogli, colpi bassi tra i candidati. Le ultime poi, che rivestivano una particolare importanza – si sono svolte nell’anno, il 2014, in cui si stava completando il ritiro del contingente militare della Nato (Isaf) – sono state particolarmente difficili.

Un “disastro” secondo la commissione di osservatori dell’Unione Europea. I due candidati arrivati al ballottaggio Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah non si sono risparmiati colpi bassi e accuse di brogli. Il conteggio delle schede aveva richiesto diverse settimane e stava precipitando il Paese in un pericoloso vuoto di potere. A metterci una pezza ci pensò l’allora segretario di Stato americano John Kerry. Da abile mediatore qual era, mise d’accordo i due sfidanti a creare una sorta di Governo a due, con Ghani presidente e Abdullah nell’inedito ruolo di primo ministro esecutivo. Un esperimento che non ha però dato i risultati sperati.

Il rischio di attentati sull’affluenza

Il voto di oggi è comunque importante. L’immane dispiegamento di forze di sicurezza, 100mila tra militari e forze di polizia, non ha precedenti. La posta in gioco è comunque alta. E molto, se non tutto, dipenderà dall’affluenza. Il dato capace di conferire, o privare di legittimità il voto.

Lo scenario non poteva essere peggiore. Il 2019 rischia di essere ricordato come l’anno con più vittime civili dall’inizio della campagna militare americana, a fine 2001. Il fallimento dei negoziati per il processo di pace tra Talebani e Stati Uniti non è certo un segnale incoraggiante. Così come non lo è l’ascesa dei gruppi di estremisti legati all’Isis. Il Governo, poi, è ormai alla paralisi. L’Afghanistan di oggi si trova insomma ancora prigioniero di un caos controllato, una situazione di stallo. I Talebani non hanno mai vinto. I loro due nemici – i soldati americani e il Governo “apostata” di Kabul – sono ancora presenti nel Paese. Ma nemmeno gli Stati Uniti ed il Governo sono riusciti ad avere la meglio sugli insorti. Anzi, in oltre la metà del Paese, soprattutto nelle zone rurali, il Controllo del Governo è praticamente assente. Nessuno dei due belligeranti è tanto debole da perdere, ma nemmeno tanto forte da vincere.

I numeri

Sono le quarte elezioni presidenziali da quando, nel novembre del 2001, l’esercito americano, insieme alla forze di terra afghane del nord, rovesciarono il regime dei Talebani, che aveva governato con leggi oscurantiste e violente il Paese dal 1996, dando ospitalità alle basi di al-Qaeda sul suo territorio. Su una popolazione complessiva di 33 milioni di abitanti, gli afghani registrati al voto sono 9,7 milioni (di cui solo 3,3 milioni di donne). Andranno a votare nei 7.366 centri elettorali (ognuno dei quali contiene anche più seggi) sparsi per le 34 province del Paese.

A conferma del deteriorarsi delle condizioni di sicurezza, oltre duemila centri elettorali saranno chiusi, soprattutto nelle zone rurali dove la partecipazione degli elettori è solitamente bassa, soprattutto quella delle donne. Una chiusura sospetta agli occhi del candidato Abdullah, che ha prontamente accusato il presidente Ghani di aver fatto chiudere “per sicurezza” i seggi nelle aree favorevoli alla coalizione pro-Abdullah.

L’affluenza, se su livelli accettabili, sarà comunque decisiva a conferire quella legittimità di cui il nuovo presidente afghano ha un bisogno disperato. In caso contrario potrebbe crearsi un pericoloso clima di instabilità in cui ogni fazione si autolegittima rivendicando una fetta di potere.

I candidati

In una campagna elettorale funestata dagli attacchi dei Talebani (effettuati direttamente anche contro i civili) il numero dei candidati alla carica di presidente si è ridotto. Erano 19. Sono rimasti in 15. Quelli di una certa rilevanza non sono più di cinque. Tuttavia anche questa elezione sarà caratterizzata dalla sfida tra l’attuale presidente Ashraf Ghani e il primo ministro esecutivo Abdullah Abdullah. I due leader politici condividono un esperimento istituzionale dal 2014, un governo di unità nazionale che tuttavia si è presto bloccato.

Ex ministro delle finanze, Ashraf Ghani, 70 anni, è il favorito di questa competizione elettorale. Appoggiato dalla comunità internazionale , e soprattutto dagli Stati Uniti, Ghani non è riuscito tuttavia ha realizzare le tante riforme che aveva promesso durante la campagna elettorale di cinque anni fa. La corruzione è ancora pervasiva, la sicurezza deteriorata, la burocrazia onnipresente. A Ghani, che ha il sostegno dell’etnia maggioritaria del Paese, quella pashtun, va tuttavia riconosciuto di esser riuscito ad accentrare il potere in un Paese come l’Afghanistan.

Sono ormai nove anni che Abdullah Abdullah appare come l’eterno perdente. Già nel 2009 aveva perduto contro Hamid Karzai. Quest’uomo, un dottore, appoggiato dall’etnia tajika, dai modi affabili e pacati, non sembra riscuotere troppo successo anche perché ha un atteggiamento troppo occidentale, europeo. Ha puntato su un team multietnico e comprensivo ma è dato in deciso svantaggio su Ghani. Eppure, quest’uomo incline al compromesso e al dialogo, potrebbe rispuntare ancora una volta se sarà necessario un ennesimo Governo di unità o d’intesa.

La popolarità di Hafni Tamar, altro candidato che si presentavo forte in estate, è precipitato notevolmente dopo che, ai primi di agosto, il suo team elettorale si è letteralmente frantumato. Nessuna donna, invece, è presente nella lista dei candidati.

Il contingente italiano

L’Italia monitora attentamente quanto sta accadendo in Afghanistan. Anche perché il suo è il secondo contingente militare straniero dispiegato nel Paese, dopo quello americano. L’attuale contributo italiano prevede un impiego massimo di 900 militari (ma oggi sarebbero circa 800), 148 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei. Questo schieramento è suddiviso tra il personale di Kabul e il contingente militare di Herat presso il Taac-W (Train Advise Assist Command West). Presenti in Afghanistan già dal 2002, nella missione Isaf, le forze armate italiane sono ora inquadrate nella missione Resolute Support, e quindi svolgono prevalentemente compiti di arruolamento, addestramento, assistenza e consulenza per le autorità e le forze di sicurezza afghane.

Il processo di costruzione delle forze afghane richiederà tuttavia ancora molti anni prima di poter raggiungere risultati soddisfacenti. L’elevato e crescente tasso di diserzione nelle forze di polizia si sta rivelando una pericolosa emorragia, soprattutto alla luce del drastico deteriorarsi delle condizioni di sicurezza in tutto il Paese.

La fine dei negoziati tra Usa e talebani

Il voto di oggi, poi, avviene in un momento reso ancor più delicato a causa dell’interruzione delle trattative di pace tra Talebani e Stati Uniti. Il presidente americano Donald Trump ha annunciato la fine di quei negoziati di pace – portati avanti a Doha tra delegazioni americane e talebane – arrivati all’ottavo round. Sembrava che la finalizzazione di una bozza fosse ad una passo. Correva voce che Trump volesse incontrare Talebani e Governo afghano, separatamente, in una località montuosa nel Maryland.

Ma i due gravi attentati ti, il 3 e il 5 settembre, che hanno seminato il terrore a Kabul, rivendicati peraltro dagli stessi Talebani, e in cui ha perso la vita anche un militare americano, hanno mandato su tutte le furie il presidente Trump. Il quale, ricorrendo al solito , tweet, ha reso nota la fine dei negoziati di pace. (in teoria segreti) . Le premesse per il futuro del Paese non sono certo buone. Se per gli americani l’Afghanistan ormai rappresenta “la guerra che non si può vincere”, per gli stessi afghani rischia di diventare il paese che non si può governare.

(Fonte: Il Sole 24 Ore)