Nella stagione dei politici spuntati dal nulla, senza un vissuto, privi di qualità, che come titolo di merito vantano il non averne alcuno, Sergio Mattarella incarna una doppia eccezione. Ha maturato un’esperienza straordinaria come servitore delle istituzioni: parlamentare, ministro, vicepremier, giudice costituzionale e da ultimo presidente della Repubblica. Eppure – ecco l’altro paradosso – dell’uomo Mattarella poco si conosce. Tra i personaggi pubblici del nostro tempo è forse il più schivo, probabilmente il meno portato a raccontarsi, a farsi pubblicità. L’Anti-Narciso per eccellenza. Basti dire che finora mai nessuno ne aveva compiutamente ricostruito la storia politica e personale.

Angelo Gallippi colma per la prima volta questa singolare lacuna con una biografia obiettiva e accurata, non irriguardosa ma nemmeno agiografica, ricca di curiosità, che lungo la strada raccoglie frutti sorprendenti e di Mattarella rivela alcuni aspetti molto privati, in qualche caso sconosciuti perfino ai collaboratori più stretti (figurarsi ai giornalisti, come chi scrive).

La narrazione biografica s’intreccia con tutti i momenti chiave, compresi i più drammatici, degli ultimi quarant’anni di vita italiana: dall’assassinio di Piersanti Mattarella per mano della mafia fino all’epopea di Mani Pulite, dal crollo del Muro di Berlino alla guerra in Kosovo, dall’epilogo della partitocrazia alla sfida dei populismi.

La forza del racconto di Gallippi sta nella sistematica, puntuale documentazione che fa del volume uno strumento prezioso per gli studiosi di domani. Al lettore di oggi viene risparmiato lo sforzo un po’ ingrato di ricostruire certi passaggi sbiaditi nella memoria, contestualizzandoli in modo che chiunque possa meglio apprezzarne il significato. Capitolo dopo capitolo emerge il segreto che ha permesso al XII presidente della Repubblica di affrontare indenne, anzi in un crescendo di popolarità, i momenti più burrascosi del suo settennato. Questo segreto è, senza dubbio, il garbo istituzionale. Cioè lo scrupolo costante mostrato nell’esercizio dei propri poteri, senza mai debordare e con un profondo rispetto delle forze politiche, del ruolo che queste esercitano secondo Costituzione. Con uno stile, dunque, piuttosto lontano dall’interventismo di alcuni predecessori.

La narrazione biografica s’intreccia con tutti i momenti chiave, compresi i più drammatici, degli ultimi quarant’anni di vita italiana: dall’assassinio di Piersanti Mattarella per mano della mafia fino all’epopea di Mani Pulite, dal crollo del Muro di Berlino alla guerra in Kosovo, dall’epilogo della partitocrazia alla sfida dei populismi

Sia chiaro: farsi sentire quando occorre non è motivo di censura e anzi, come qualche accademico ha segnalato, una maggiore presenza nell’agone viene espressamente richiesta al capo dello Stato nelle stagioni di crisi più acuta, quando i partiti faticano ad assumersi le loro responsabilità. In quei casi, è fisiologico che i poteri presidenziali crescano a fisarmonica per compensare le fragilità del sistema. Ad esempio, durante la lunga fruttuosa stagione di Giorgio Napolitano, il ruolo di supplenza esercitato dal Colle nell’interesse collettivo aveva trasformato il Garante nel perno su cui tutti gli equilibri finivano per poggiare e il presidente – suo malgrado – in un soggetto politico attivo. Mattarella ha invertito quella tendenza al protagonismo presidenziale motivandone in almeno tre occasioni il perché.

Il primo chiarimento fu proprio nel discorso pronunciato davanti alle Camere in seduta comune, il 3 febbraio 2015. Eletto con 665 voti su 910 e per iniziativa dell’allora segretario Pd, Matteo Renzi, Mattarella si premurò di precisare che il suo ruolo sarebbe stato quello di un arbitro cui compete la puntuale applicazione delle regole, con assoluta imparzialità. Laddove i veri protagonisti sul terreno di gioco sarebbero stati altri. Cioè chi, esattamente? Lo illustrò meglio durante un messaggio televisivo agli italiani, il 31 dicembre 2017. «Abbiamo davanti una pagina bianca, e a scriverla saranno gli elettori», annunciò, «successivamente i partiti e il Parlamento». Si badi alla gerarchia niente affatto casuale: dapprima la parola sarebbe spettata al popolo sovrano, come in effetti avvenne qualche mese dopo nelle elezioni politiche 2018, quindi alle forze politiche nelle scelta delle alleanze, infine alle Camere con la fiducia al governo. Mattarella volle mettere in chiaro che non sarebbe stato lui il Deus ex machina degli equilibri possibili, in quanto la Costituzione pone dei limiti. Molto in là ci si era dovuti spingere in passato, s’imponeva ora un passo indietro (o di lato, se si preferisce). Concetto ripreso il 15 luglio 2020, con un richiamo storico per palati fini. Ricordando Luigi Einaudi che si era impegnato a difendere i poteri presidenziali – casomai qualcuno avesse pensato di limarli – Mattarella nell’occasione aggiunse: «In base al medesimo criterio ho ritenuto, e ritengo, di non pretendere di ampliarli in nome di buone ragioni che aprirebbero la strada ad altri arbìtri, per cattive ragioni». Insomma: zero desiderio di sostituirsi ai leader nelle piccole e grandi scelte di loro competenza; una fiducia quasi provvidenziale nella libera dialettica politica; un rispetto altrettanto forte per l’essenza vera della democrazia che consiste nel dar voce alla gente e assecondarne gli orientamenti di fondo.

È lecito domandarsi se, in qualche snodo particolarmente critico, il presidente della Repubblica avrebbe dovuto picchiare i pugni sul tavolo, un po’ alla Sandro Pertini tanto per capirsi; o se in altre situazioni si sarebbe potuto imporre con più decisione ai capricci di certi leader. In realtà, perlomeno in tre occasioni Mattarella si è caricato sulle spalle enormi responsabilità. Accadde con l’incarico che – nel maggio 2018 – fu sul punto di conferire a Carlo Cottarelli, economista da lui personalmente scelto, sfidando il «no» di Cinque stelle e Lega appena usciti vittoriosi dalle urne. La seconda circostanza coincise con il veto opposto alla nomina di Paolo Savona quale ministro dell’Economia, che gli scatenò contro una reazione violenta culminata nella richiesta di impeachment da parte del M5S. Da ultimo, la scelta di Mario Draghi, designato nel gennaio 2021 alla guida di un governo largamente rappresentativo per autonoma iniziativa presidenziale.

Atti di coraggio politico non sono dunque mancati, ma in un contesto di tale rigoroso ossequio alle regole scritte e non scritte che, durante l’esperienza del primo governo Conte, e con Matteo Salvini sulla poltrona del Viminale, nessuno ha mai potuto accusare l’arbitro di favorire l’opposizione o, come era accaduto con certi suoi lontani predecessori, di organizzare  congiure contro il governo in carica. Dove Sergio Mattarella si è sempre mostrato rigido, perfino intrattabile, è stato sui princìpi costituzionali. Sui criteri di fondo che dovrebbero ispirare la civile convivenza. Sulla meritocrazia dei valori. Sulle scelte di campo internazionali, incominciando da quella europea e occidentale. La sua difesa appassionata di un’Italia aperta e dalle vedute larghe, multietnica e generosa, accogliente e solidale, ha fatto sistematicamente a pugni con la retorica «cattivista» sparsa sui social. Inevitabile che Mattarella finisse nel mirino dei fomentatori d’odio, in qualche caso manovrati da fuori. Idem sull’Europa: l’«internazionale sovranista» ha individuato da subito nel presidente un irriducibile antagonista. Non c’è intervento di politica internazionale dove abbia fatto mancare un richiamo forte all’Unione, un’esortazione a rafforzarne le basi combattendo gli egoismi nazionalistici.

L’allargamento della famiglia europea ai Paesi balcanici è stata una costante delle sue iniziative di politica estera. Sul terreno operativo, Mattarella ha messo a disposizione dei governi che si sono succeduti una fitta tela di relazioni (anche personali) con i reggitori del Vecchio Continente, senza peraltro rivendicarne i meriti. Ma ciò che veramente contraddistingue questo settennato è l’intensa promozione delle cosiddette virtù repubblicane, accompagnata da un’attenzione senza precedenti ai meriti di piccoli e grandi eroi della quotidianità, testimoni di un’Italia migliore spesso trascurata. Non era facile cavarsela in una stagione dominata dagli istinti primordiali, da leader spesso insofferenti alle regole del gioco che questo signore dalle maniere gentili ha saputo mettere al posto loro, l’uno dopo l’altro. Mai una chiacchiera sul conto suo, della famiglia o dei collaboratori. Uno stile presidenziale ispirato alla sobrietà (qualcuno per caso ha incontrato Mattarella nei salotti romani dove si fanno raccomandazioni e affari?). Una buona dose di autoironia che nei sette anni sul Colle gli ha impedito di smarrire il senso della misura e di considerarsi un uomo della provvidenza sebbene, per tanti aspetti, lo fosse. La standing ovation della Scala – sei minuti di applausi ininterrotti il 7 dicembre 2021 – è stato il riconoscimento straordinario a una presidenza esemplare. In attesa che su Sergio Mattarella si pronuncino gli storici, gli italiani lo hanno già giudicato.

Ugo Magri
Prefazione al libro
Sergio Mattarella. 40 anni di storia italiana
di Angelo Gallippi