Siria_Iraq_economia

Il 17 agosto 2017, i maggiori esponenti del governo siriano inauguravano, dopo sei anni di conflitto, la 59° Fiera Internazionale di Damasco, celebre appuntamento economico annuale aperto a tutte le imprese internazionali operanti o desiderose di operare in Siria.

Seppur colpita da un attacco terroristico, la Fiera ha rappresentato un punto di svolta simbolico per la vita economica del Paese, dando via al lungo processo di ricostruzione economica e sociale tanto atteso dalla popolazione, ma anche dalle imprese regionali. Perché con la lenta ma graduale sconfitta dello Stato Islamico, Siria e Iraq si preparano a gestire una nuova “febbre dell’oro”, innescata dalla progressiva liberazione dei territori sino a poco fa occupati da ISIS.

I vincitori – in altre parole lo Stato siriano, quello iracheno e i loro alleati regionali e globali – hanno di fronte un panorama socio-economico devastante. Oltre alle centinaia di migliaia di vittime, la Banca Mondiale afferma che la guerra è costata complessivamente quasi un milione di posti di lavoro ai due paesi. Secondo stime dello United Nations Economic and Social Commission for Western Asia (ESCWA) di Beirut, più del 30% delle strutture residenziali siriane sono rimaste distrutte dai combattimenti. In macerie è anche il 20% delle strutture industriali e il 10% delle strutture elettriche e idriche, cui però bisogna aggiungere le infrastrutture danneggiate ancora riparabili.

In Iraq la situazione non è migliore: oltre all’annientamento di città intere, ancora oggi abbandonate dalla popolazione, a novembre un terremoto ha scosso anche quelle regioni relativamente risparmiate dalla guerra al Califfato. Per la Siria, le stime più caute parlano di almeno 150 miliardi di dollari d’investimenti necessari, poco meno per l’Iraq. Cionondimeno, i due paesi hanno visioni molto diverse riguardo alla ricostruzione del proprio territorio.

In un discorso pubblico tenuto durante l’apertura della Fiera Internazionale di Damasco, il presidente siriano Bashar Al Assad ha pronunciato le seguenti parole: «Non ci saranno cooperazione, ambasciate né ruoli per quei paesi che dicono di voler trovare una soluzione, almeno finché non romperanno apertamente le proprie relazioni con il terrorismo». Queste parole sembrerebbero indicare la chiara volontà di “filtrare” i futuri protagonisti della ricostruzione. Eppure, anche quei paesi che hanno sostenuto apertamente gli oppositori di Assad cominciano a scalpitare. Già quest’estate circolavano voci su diverse testate arabe di una possibile riapertura dell’ambasciata francese in Siria, conditio sine qua non per ricominciare a operare nel paese. Sempre per usare la Francia a titolo di esempio, diverse società non hanno mai smesso di operare in Siria, in alcuni casi riuscendo a “ricevere protezione” da gruppi terroristici. È il caso del cementificio di Jalabiyah, appartenente al colosso francese Lafarge, indagato dalla magistratura d’oltralpe per aver pagato le “tasse” allo Stato Islamico in Siria.

L’Iraq, invece, almeno ufficialmente ha tenuto un atteggiamento più aperto rispetto alla ricostruzione del tessuto economico nazionale. La Iraq Reconstruction Conference del 2018, forum economico fondamentale per il panorama imprenditoriale locale, si terrà in Kuwait il 13 febbraio e vi potranno partecipare tutti i paesi interessati alla ricostruzione senza alcuna distinzione. Questo atteggiamento, più “ecumenico” rispetto al vicino siriano, potrebbe derivare da una differenza sostanziale: le risorse petrolifere, di cui l’Iraq è ricco. Secondo alcuni analisti, infatti, il rilancio del mercato degli idrocarburi permetterebbe all’Iraq di disporre di maggiori e più rapidi finanziamenti rispetto al vicino siriano, creando dunque migliori opportunità di rilancio economico.

Intanto, nei paesi limitrofi sono già stati avviati quei grandi progetti di sviluppo infrastrutturale fondamentali, nel futuro prossimo, per l’arrivo e la concentrazione delle tonnellate di beni necessari alla ricostruzione. Molte potrebbero passare da Tripoli, porto libanese situato a una trentina di chilometri dalla città siriana di Homs, nonché molto vicino alle città costiere di Latakia e Tartous, che a loro volta potrebbero essere coinvolte. La Giordania invece starebbe puntando sulla costruzione di un aeroporto per merci nella regione di Mafraq, accanto alle frontiere meridionali della Siria, dove il Ministro dell’Industria Yarub Al Qudah ha già firmato un contratto con diverse società di costruzioni internazionali. Dopo il Califfato, dunque, può ricominciare il commercio.

Roberto Saverio Caponera
Analyst of Joint Italian Arab Chamber