Dopo un’altra campagna elettorale serrata è arrivato il tempo delle urne. La Camera dei Rappresentanti, un terzo del Senato e 36 governatori su 50 Stati potrebbero cambiare colore dal 6 novembre. A due anni esatti dall’elezione di Donald Trump, l’America farà i conti con i suoi due ultimi anni politici, dando nuovamente la parola agli elettori, che si esprimeranno nel voto di metà mandato del presidente.

I membri del Congresso saranno eletti attraverso un sistema maggioritario semplice, a eccezione della Louisiana, che utilizzerà un metodo uninominale a doppio turno. Per la Camera i collegi uninominali sono suddivisi equamente sulla base della popolazione di ciascuno Stato. Mentre è probabile che i democratici conquisteranno la maggioranza dei seggi riservati ai rappresentanti della Camera, stessa cosa non si può dire per il Senato. Nella porzione della Camera alta che si rinnoverà in questa tornata elettorale, i senatori uscenti sono in maggioranza democratica, lasciando in bilico gli esiti del voto.

Lo scontro fra i repubblicani e i democratici non si è mai affievolito negli ultimi 24 mesi. A tratti scorretto, in ogni situazione molto aspro, gli oppositori di Trump non hanno abbassato i toni della protesta verso le scelte radicali della Casa Bianca su ogni fronte. Dall’altra parte, il candidato che aveva iniziato la sua corsa come outsider ha raccolto nel partito repubblicano sempre più consensi, fino a che i conservatori non si sono uniti sotto la causa del presidente, a volte usando i suoi stessi mezzi nella lotta politica. Esempio ne è il comizio a Miami dell’ex presidente Barack Obama a sostegno di Andrew Gillum, afroamericano e candidato democratico al ruolo di governatore in Florida. A un certo punto del discorso, si sono sollevati fischi e cori di protesta, una vera intromissione nella campagna dell’opposizione. «Perché i sostenitori di quello sono qui?», ha detto stizzito Obama, voltandosi verso lo staff di Gillum.

La politica americana negli ultimi mesi è cambiata, tanto che per difendersi lo stesso Trump, che ha pronosticato la perdita del controllo repubblicano della Camera, non ha smesso di usare tweet e toni aggressivi per difendersi da un potenziale ribaltone.
Da un lato ha promesso di inviare 15mila soldati al confine con il Messico per prevenire l’arrivo della carovana di 300mila migranti partita dall’Honduras. Dall’altro ha annunciato la riconferma delle sanzioni ai danni dell’Iran e di diversi suoi partner economici, fra i quali molti paesi europei, che non a caso saranno effettive da lunedì 5 novembre, proprio alla vigilia del voto.
Una scelta condannata dall’Alto Rappresentante per la Politica estera e la Sicurezza comune Ue Federica Mogherini, che lamentava non fosse stato concesso neanche un mese di tempo alle imprese europee per tutelarsi. Le limitazioni all’esportazione di petrolio (25% del Pil iraniano) e agli investimenti stranieri a Teheran saranno anche caratterizzate da un blocco dei prestiti e degli investimenti bancari. Un aspetto che, secondo Trump, dopo il crollo già avvenuto dell’esportazione di 1 milione di barili di greggio in meno, scoraggerà altri investitori, di fronte all’assenza di credito per le attività economiche in Iran. Anche l’Italia del governo Lega-5stelle sembra non essere più esentato dalle conseguenze di queste sanzioni, che per la Casa Bianca condannerebbero lo sviluppo del nucleare e l’appoggio degli Ayatollah a Hezbollah in Libano. Il tutto è stato arricchito da un tweet del presidente in veste Game of Thrones, la celebre serie Tv americana. Una scelta pop che ha indignato Hbo, produttrice della serie, ma che ha sicuramente un impatto diverso sul pubblico.

Per la stessa linea di comportamento seguita da Trump finora, il voto del 6 novembre sarà interpretato come un referendum sul suo operato. La storia politica del Paese dovrebbe sorridere alle opposizioni che, secondo i sondaggi, sarebbero in vantaggio di sette punti percentuali.
Questo nonostante negli ultimi due anni non siano riusciti ad affermare gran parte delle loro politiche. A eccezione dell’Obamacare nell’ambito della riforma sanitaria, non sono né riusciti a ottenere i salari minimi, né un maggiore controllo sulle armi, né una legalizzazione dei dreamers, i figli dei migranti. Dello stesso avviso la rivoluzione della nuova ondata di femminismo, guidata dal movimento #MeToo, ha attirato non solo sostegno e solidarietà, ma anche sollevato dubbi e sospetti. Allo stesso tempo i democratici non hanno un unico modello di leadership. Più radicali a est, più moderati e pragmatici nel centro-ovest, gli oppositori sono ancora in fase sperimentale, prima di affrontare nuovamente i repubblicani in quelle che saranno le elezioni presidenziali del 2020.

Lorenzo Nicolao, Twitter @LolloNicolao