Trump e il lungo inverno americano

I fatti del 6 gennaio al Campidoglio, sede del Congresso degli Stati Uniti, sono il culmine di una radicalizzazione iniziata da tempo e accelerata dalla Presidenza Trump.

Il 6 gennaio, mentre seguivo gli avvenimenti, mi è venuto in mente quel passo delle Epistole di San Gerolamo dove scrisse “La luce del mondo si è spenta”, riferendosi al sacco di Roma da parte dei Visigoti nel 410 d.C.. Non voglio certo paragonare i due eventi, ma la sensazione è questa. Per decenni, gli Stati Uniti, con tutti i loro difetti sono stati la guida del mondo occidentale in molti campi, anche in quello della democrazia. Sono quattro anni che non è più così e il sacco del Campidoglio di ieri è il culmine di tutto questo.

Fig. 1 – Membri dello staff del Congresso fanno una barricata per proteggersi dall’assalto dei sostenitori di Trump.

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TRUMP PRESSA LA GEORGIA PER CAMBIARE IL RISULTATO ELETTORALE

Trump ha danneggiato gravemente le istituzioni e la democrazia del Paese. Non è certo iniziato tutto con lui. Il processo di radicalizzazione della politica statunitense ha origini ben più lontane e nasce soprattutto dal partito repubblicano. Quello democratico si è solo accodato. Trump è figlio di questa radicalizzazione, la sua espressione ultima. Mi ricordo i commentatori che nel novembre 2016 dicevano “vedrete che una volta Presidente si conformerà alle regole e diventerà più istituzionale”. Un’illusione che in molti di loro prosegue anche dopo i fatti di ieri. In quattro anni, questo Presidente ha mentito con costanzaha sostenuto o accarezzato le peggiori teorie del complotto, ha esacerbato le tensioni sociali e razziali nel Paese, ha sobillato i più bassi istinti delle persone, ha sulla coscienza centinaia di migliaia di morti per non aver fatto nulla per cercare di contenere la più grande pandemia degli ultimi 100 anni, ha cercato di appropriarsi del potere dopo aver perso nettamente le elezioni, facendo credere a milioni di elettori che ci fossero stati brogli, ovviamente solo negli stati in bilico che lui ha perso. Con il suo comportamento, Trump ha reso felici regimi autoritari come Russia e Cina e indebolito la causa della democrazia a livello globale. Questo basta a far cadere in secondo piano le discussioni sulle sue scelte di politica economica ed estera che già alcuni suoi irriducibili sostenitori provano, invece, a far notare, secondo l’antico motto “però ha fatto anche cose buone”. No. Questo Presidente ha messo a rischio un Paese che volente o nolente ha influenza su gran parte del mondo. Ha mostrato la via a numerosi sostenitori e adulatori per cercare di imitarlo e fare “meglio” (peggio) di lui. Si è insinuato, per fortuna goffamente, nelle crepe del sistema democratico-istituzionale degli Stati Uniti, che ora necessita di profonde riforme, per evitare che possa accadere di nuovo. La democrazia statunitense ha retto, ma solo perché Trump non ha trovato complici in chi aveva la responsabilità delle elezioni a livello statale e nei giudici statali, federali e della Corte Suprema. Nel Congresso, questi complici li ha, basti vedere la sceneggiata di molti repubblicani che hanno rallentato il processo di ratifica formale dell’elezione di Joe Biden e Kamala Harris a Presidente e Vicepresidente, ora finalmente avvenuto.

L’ultima puntata di quest’anno della mia newsletter House of Coffee l’ho intitolata “Buon lavoro, Joe” e ho parlato delle sfide difficilissime che attendono il neo Presidente. Da ieri, il livello di difficoltà è forse aumentato. Perciò lo ripeto e lo rafforzo: buon lavoro Joe e buon lavoro Kamala.

Di Emiliano Battisti. Pubblicato su Il Caffè Geopolitico