Un accordo mancato poteva essere meglio di un altro vago secondo accordo. Sembrava finita così e invece dal Vietnam, quando ormai erano notte, è arrivata la notizia di una momentanea rottura tra Stati Uniti e Corea del Nord. Il presidente Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong un non hanno trovato terreno fertile per sottoscrivere un impegno comune durante il vertice ad Hanoi. La firma del documento comune, così come il pranzo, sono stati bruscamente cancellati. La conclusione a sorpresa del summit ha reso evidente ancora una volta il gap tra Stati Uniti e Corea del Nord su cosa intendere per denuclearizzazione della penisola coreana e la distanza sulle condizioni necessarie per la revoca delle sanzioni internazionali richiesta da Pyongyang. Il pranzo al Metropole Hotel si è freddato, come i rapporti personali e privilegiati che Trump aveva cercato di stabilire con Kim. «A volte devi andartene e questa è una di quelle volte», ha detto Trump a fine summit. La strada da fare a piedi è tanta e ora la diplomazia dovrà macinare chilometri.

A detta di Trump, Kim sarebbe stato disposto a smantellare parte, non tutte, le strutture utili al proseguimento del programma atomico, ma come corrispettivo avrebbe chiesto la revoca completa delle sanzioni, qualcosa che gli Usa non avrebbero mai potuto accettare. Oppure, secondo un’altra versione, il summit avrebbe portato a un’apertura della Corea del Nord giudicata però non sufficiente dagli Usa. La versione del Ministro degli Esteri nordcoreano è stata diversa da quella di Trump: «Abbiamo chiesto la rimozione parziale delle sanzioni», ha detto Ri Yong-ho a tarda notte. Trump ha lasciato l’hotel di Hanoi perché la proposta di smantellare solo il sito di Yongbyon non era abbastanza e ha parlato delle attività nascoste legate al programma di arricchimento dell’uranio. La Corea del Nord avrebbe invece proposto la chiusura degli impianti di uranio e plutonio di Yongbyon da verificare attraverso ispezioni di esperti americani in cambio di una revoca di 5 delle 11 sanzioni Onu adottate tra il 2016 e il 2017. Le sanzioni che, secondo Ri Yong-ho, negano ai cittadini nordcoreani i mezzi di sostentamento. «Era la proposta migliore che potevano fare. È chiaro che gli Usa non accettano la proposta di Pyongyang, che non cambierà neanche nelle eventuali future negoziazioni», ha commentato il Ministro. La vice Choe Son-hui ha aggiunto che non sono previsti altri colloqui con Washington. Non si capisce ora chi dica la verità.

La conclusione più realistica del vertice sarebbe stata proprio ottenere da Kim la promessa di chiudere il sito nucleare di Yongbyon in cambio di una parziale revoca delle sanzioni. Se così fosse stato, Usa e Corea del Nord sarebbero andate verso un equilibrio fondato sul deterrente atomico. Dalle immagini satellitari di febbraio 2019, inoltre, i reattori per la produzione di plutonio di Yongbyon non davano segni di essere operativi. Il summit di Hanoi era tanto atteso perché poteva segnare un punto di svolta nei negoziati. Gli Usa sembravano favorevoli a rinunciare alla “completa e irreversibile denuclearizzazione” da parte di Pyongyang e a discutere un alleggerimento delle sanzioni, mentre Kim avrebbe accettato, forse, una revoca parziale delle sanzioni per iniziare a ricostruire il Paese cedendo uno dei suoi maggiori siti nucleari. Non è andata così.

Trump aveva provato a ingolosirlo facendo leva sul futuro di “grande potenza economica” che la Corea del Nord potrebbe diventare, e a ricordare che la crescita è possibile anche in un Paese a vocazione socialista bastava la location. Il cuore delle sanzioni impedisce infatti l’avanzare di processi di cooperazione economica inter-coreani come il funzionamento del parco industriale di Kaesong o il complesso turistico sul Monte Kumgang, progetti che adesso sembrano bloccati. Tuttavia, è pur vero che riconoscere a Kim benefit economici senza prove concrete e irreversibili della denuclearizzazione, avrebbe il rischio di trasformare la Corea del Nord in un altro Pakistan, una potenza nucleare de facto che si sostiene con aiuti all’economia.

L’obiettivo della denuclearizzazione totale era utopistico perché l’atomica garantisce a Kim la sopravvivenza sua, della sua dinastia e del regime e per questa ragione il dittatore non è disposto a negoziarla, se non in cambio della certezza di non finire come Sadddam e Gheddafi. Arrivare a un accordo, dopo il ritiro degli Usa dal trattato sui missili a raggio intermedio sottoscritto da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov nel 1987, sembrava ancora meno plausibile. Per la Corea, la parola denuclearizzazione implica, inoltre, la fine dell’ombrello nucleare americano a protezione di Corea del Sud e Giappone. Soddisfare questo principio metterebbe a rischio gli alleati Usa nella regione, ma dopo il summit di Hanoi Trump è tornato sull’urgenza di ridurre la spesa per la difesa di Seoul e per le esercitazioni militari congiunte.

Il secondo giorno di colloqui era iniziato nel segno della speranza che arrivasse una dichiarazione sulla fine formale della guerra di Corea. La dichiarazione sarebbe servita come base fondamentale per aumentare la fiducia reciproca e per normalizzare le relazioni tra Usa e Corea del Nord, ma era un obbiettivo troppo ottimistico. “È più facile che i maiali volino a Pyongyang”, era stato scritto. Solo dopo sarebbe potuto arrivare un trattato di pace sottoscritto anche da Cina e Russia. Nessun maiale si è visto nei cieli della capitale. La conclusione migliore del summit avrebbe incluso la promessa di aprire un ufficio di collegamento tra Washington e Pyongyang per facilitare i colloqui, premessa da cui partire per l’apertura delle rispettive ambasciate. Gli Usa avrebbero voluto da Kim una lista completa delle armi e dei siti nucleari del regime e la disponibilità alle ispezioni internazionali. Il summit di Hanoi avrebbe avuto successo, inoltre, se Trump e Kim avessero stilato una road map per realizzare quanto sottoscritto a Singapore lo scorso 12 giugno. Niente di tutto questo è avvenuto.

Il grande assente del summit sono stati i diritti umani. Victor Cha, uno dei massimi esperti mondiali di Corea del Nord, aveva detto che la promessa dello sviluppo economico in cambio della rinuncia alla bomba non sarebbe stata credibile senza progressi sostanziali sul fronte dei diritti umani. Il programma nucleare nordcoreano si finanzia attraverso il flusso di capitali che arriva dai nordcoreani costretti al lavoro forzato principalmente in Cina e in Russia. Per Cha, puntare sui diritti umani avrebbero aumentato il potere negoziale degli Usa. Quando nel 2014 il mondo ha capito la portata delle violazioni, il regime ha iniziato a sentirsi vulnerabile a fare pressioni per non riceve risoluzioni punitive dal Consiglio di Sicurezza. Infine, le attuali risoluzioni Onu e le leggi Usa rendono impossibile un coinvolgimento estero nell’economica nordcoreana perché la Corea del Nord non garantisce il rispetto delle norme internazionali sul lavoro.

Tutto da rifare dunque, ma il dialogo sulla denuclearizzazione non si ferma. Con la Corea del Nord basta non tornare indietro. Pyongyang ha demolito il sito di Punggye-ri, ha congelato i test e le esercitazioni militari congiunte tra Usa e Seoul sono state ridotte. Quando ad Hanoi i reporter hanno chiesto a Kim se vuole o no la denuclearizzazione, il dittatore ha risposto: «Non sarei qui se non lo volessi». Ora tocca a Moon proseguire e Trump si sarebbe subito rivolto a lui per un ruolo attivo da mediatore.