La campagna asiatica di Donald Trump arriva in un momento particolarmente delicato per il capo della Casa Bianca. A preoccuparlo non è di certo il fuoco notoriamente nemico di media come il Washington Post e ABC News, secondo le cui rilevazioni sarebbe il più impopolare tra i presidenti degli ultimi settant’anni di storia degli Stati Uniti. Un record negativo raccolto, oltretutto, in un solo anno di mandato che si concluderà in questi giorni.
Al contempo, il tycoon newyorchese ha ormai imparato a schivare le accuse che con cadenza pressoché quotidiana gli piovono addosso per il Russiagate. L’ultima, in ordine di tempo, riguarda il suo segretario al Commercio Wilbur Ross, in cima alla lista dei Paradise Papers per gli affari che lo legherebbero al genero di Vladimir Putin e a società russe poste sotto sanzioni da Washington. C’è poi il tema delle lobby delle armi, argomento tragicamente in auge negli Stati Uniti dove, oltre che per la causa del terrorismo jihadista (New York, 31 ottobre), si consumano stragi anche a causa della libera circolazione di pistole e fucili di ogni tipo. Il massacro di ieri, domenica 5 novembre, compiuto in una chiesa in Texas da un ex militare congedato per maltrattamenti in famiglia (26 morti), è solo l’ultima spia di un problema enorme a cui nemmeno l’attuale presidente sembra poter – o voler – porre rimedio.
A questo clima interno a dir poco rovente Trump si sottrarrà fino al 14 novembre, giorno in cui concluderà il suo lungo tour di visite ufficiali che lo vedranno protagonista nell’ordine in Giappone, Corea del Sud (7 novembre), Cina (8 e 9), Vietnam (10 e 11) e Filippine (12-14). Il suo sarà il più lungo viaggio all’estero di un presidente americano da 25 anni a questa parte. E il fatto che abbia scelto proprio l’Asia per compierlo dimostra quanto sia alta la posta in palio.
I riflettori, ovviamente, sono puntati sull’incontro con il presidente cinese Xi Jinping e sul possibile faccia a faccia con Vladimir Putin a margine del vertice APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) di Hanoi in Vietnam.
Al confronto con Xi Jinping Trump arriva in un’oggettiva condizione di debolezza. Il presidente cinese è uscito rafforzato (non senza, comunque, qualche ombra) dal recente 19° Congresso del Partito Comunista Cinese e l’economia di Pechino sembra destinata, in un futuro neanche troppo lontano, a superare quella americana conquistando così la leadership globale.
A Trump spetta il compito non semplice di riequilibrare i rapporti a favore degli Stati Uniti dopo il fallimentare “Pivot to Asia” su cui aveva puntato il suo predecessore Barack Obama. Per riuscirci dovrà convincere i suoi partner più affidabili della regione (Giappone e Corea del Sud), così come quelli meno manovrabili (le Filippine dell’imprevedibile presidente Rodrigo Duterte), della convenienza – economica, politica e militare – di un’alleanza con gli USA.
A Trump spetta il compito non semplice di riequilibrare i rapporti a favore degli Stati Uniti dopo il fallimentare “Pivot to Asia” su cui aveva puntato Obama
Centrare l’obiettivo non sarà semplice, sia perché ci sono da rimettere insieme i cocci del Trans-Pacific Partnership (TPP), l’accordo commerciale targato Obama da cui Trump è voluto uscire, sia perché il presidente americano vuole riscrivere le regole degli scambi commerciali con questi Paesi. Non tutti potrebbero essere d’accordo con i suoi diktat e molti potrebbero scegliere di virare sulla “Nuova Via della Seta” cinese.
Tanto a Tokyo quanto a Seoul e Pechino, a tenere banco sarà poi la questione nordcoreana, ed è qui che entra direttamente in gioco Vladimir Putin. Trump è consapevole che non potrà avere un appoggio sincero e incondizionato della Cina nel contenimento del regime di Pyongyang. Né tantomeno confida nello strumento di azioni commerciali contro Pechino qualora Xi jinping non dovesse chiudere i rubinetti dei sostentamenti economici destinati alla sopravvivenza del popolo di Kim Jong Un, in primis le esportazioni di petrolio e le importazioni di carbone.
Per lui è pertanto necessaria un’intesa con il capo del Cremlino. Senza un patto con Putin, è infatti impensabile qualsiasi manovra militare americana lanciata per disinnescare l’arsenale nucleare della Nord Corea, distruggere le sue strutture sotterranee e rendere così inoffensive le sue forze armate.
Senza un patto con Putin è impensabile qualsiasi manovra militare americana per disinnescare l’arsenale nucleare della Nord Corea
L’ipotesi di un’invasione preventiva di terra, circolata con insistenza da qualche giorno a questa parte, allarma più di tutti la Corea del Sud, che nel peggiore degli scenari potrebbe subire per ritorsione attacchi con artiglieria o con armi chimiche nei propri territori che confinano con il nord, senza dimenticare che Seoul dista poche decine di chilometri dalla zona demilitarizzata.
Con la Cina contraria alla guerra, se gli USA decideranno di agire potranno farlo pertanto solo una volta trovato un accordo con Mosca. «Speriamo di incontrarci con Vladimir Putin. Vogliamo che ci aiuti con la Corea del Nord», ha dichiarato ieri Trump in volo sull’Air Force One. La speranza di tanti, però, è che l’aiuto invocato alla fine si possa tradurre “solo” in un decisivo sostegno diplomatico.
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Alfredo Mantici
Ex capo del Dipartimento Analisi del Sisde, Direttore Analisi dI Babilon magazine e detective nel noto reality "Celebrity Hunted"
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