Se all’ordine del giorno sono le nuove sanzioni statunitensi motivate da una rilevazione di “non democraticità” dell’attuale Governo che occupa il Palazzo Miraflores, sul Venezuela va aperto un discorso ben più ampio e capace di portare alla luce quanto la programmazione socialista desiderata non abbia avuto effettivo riscontro proprio in quegli aspetti considerati fondamentali per la stessa longevità e stabilità della stessa. Una distorsione che a maggior ragione viene evidenziata con le ultime scelte strategiche fatte da Nicolas Maduro e dal suo entourage governativo capaci più di confondere che di rassicurare su quello che avverrà nel prossimo futuro.

Innanzi tutto occorre fare ordine su quello che è il percorso di formazione ideologica avvenuta nel paese da fine anni ’90 ad oggi. A tal proposito distinguiamo 3 tappe: socialismo + bolivarismo, chavismo e infine chiavismo post Chavez.

  1. Socialismo+bolivarismo non è altro che la prima fase del percorso che va dall’ascesa di Hugo Chavez alla guida del paese (avvenuta poi nel 1998) al 2002. In questo frangente troviamo due distinti approcci ideologi a seconda del contesto di applicazione: il bolivarismo in ambito internazionale e il socialismo in politica interna. Sul piano internazionale si perora la causa dell’integrazione regionale e del suo indipendentismo nei confronti di Washington. All’interno del paese invece la corrente ideologica applicata è quella socialista mediante un rinnovato dinamismo economico del settore pubblico. Lo Stato diventa parte attiva della vita economica del paese riappropriandosi della gestione diretta di diversi settori strategici come quello energetico per poi redistribuire le ricchezze mediante lo sviluppo di programmi sociali nei più svariati ambiti (istruzione, sanità, etc.).

  2. A seguito del tentato colpo di stato ai danni di Chavez (2002) avviene un irrigidimento della posizione dello stesso nei confronti di Washington tanto da far assumere al bolivarismo un’inflessione più antimperialista e/o antistatunitense. Contemporaneamente il repentino ripristino di Chavez alla guida del paese non ha fatto altro che rafforzare oltre ogni aspettativa il legame tra questo e il popolo venezuelano. È dinanzi a tali eventi che socialismo e bolivarismo confluiscono nel riconoscimento di un pensiero ideologico personalistico (ovvero che non può prescindere dalla centralità dell’uomo carismatico e alla leadership): il chavismo.

  3. Nel 2013 la morte di Chavez genera un lutto politico nel paese: scompare il leader che rappresentava anche il progetto ideologico e politico. Tale situazione crea un disorientamento politico per il popolo arginato dal partito socialista con un riposizionamento del chavismo: l’ideologia viene perseguita con il persistere di una propaganda “nostalgica” e di rimano al leader massimo. La nuova conformazione non fa altro che riporre il socialismo in una posizione subordinata e accessoria al chavismo che se da un lato permette a Maduro di ereditare la leadership dall’altra cristallizza il progetto politico stesso rendendolo vulnerabile ad ogni tentativo di destabilizzazione.

Giunti al 2014 dunque ci ritroviamo con una leadership precaria che invece di rilanciare le proprie ambizioni modificandole e adattandole al nuovo contesto politico ed economico, inizia ad accartocciarsi su se stessa fondando il proprio essere su una dialettica politica propagandistica e sterile. Tale flessione progettuale corrisponde con un rafforzamento e convergenza in un’unica coalizione delle forze politiche di opposizione e con una crisi internazionale del prezzo del petrolio. Siamo dinanzi a due distinti fattori che tuttavia convergono nell’effetto negativo che hanno sulla struttura economico-politica del paese. L’opposizione scende in piazza con forza ed inizia ad attrarre a sé grandi consensi elettorali (vince nel 2015 le elezioni politiche volte a rinnovare l’Assemblea Nazionale) oltre che a muovere a proprio favore l’opinione pubblica internazionale. La crisi petrolifera invece mette a nudo la fragilità economica di un paese troppo dipendente dallo stesso oro nero. Da qui inizia una repentina demonizzazione del governo venezuelano da parte dei media internazionali oltre che dalle principali organizzazioni internazionali (Osa, UE, Mercosur, etc) tanto che i primi a muoversi con sanzioni nei confronti di Caracas sono gli Stati Uniti che sul finire della presidenza Obama dichiarano il Venezuela come potenzialmente pericoloso per la stabilità interna statunitense. Ad aggravare la posizione internazionale di Caracas è anche il progressivo cambio politico nei principali paesi della regione latinoamericana: dalla fine del 2015 in poi i principali alleati politici e ideologici vengono meno lasciando spazio a nuove amministrazioni poco inclini alla solidarietà nei confronti di Maduro. Macri in Argentina, Temer in Brasile, la conferma di un Paraguay neoliberale, il ritorno di Piñera in Cile, Lenin Moreno in Ecuador non sono altro che l’immagine di un continente che cambia e si trasforma per l’ennesima volta lasciando dietro il Venezuela in una condizione di isolamento ideologico. Ecco quindi che all’interno dell’OSA si fanno sempre più insistenti le voci di un’impugnazione dei parametri di democraticità contro il governo di Maduro che risponde a sua volta con l’uscita dall’organismo internazionale (2017). Una fuga politica che non spegne le voci di corridoio che vorrebbero la discussione interna all’OSA per un’eventuale intervento militare contro il governo venezuelano descritto come incostituzionale e antidemocratico (2018). Ma anche in seno al Mercosur i legami internazionali si sgretolano: nel 2016 la presidenza protempore venezuelana viene boicottata da Argentina, Brasile e Paraguay (l’Uruguay si astiene) per poi divenire formale con la sospensione del paese caraibico nel 2018 sulla base di una valutazione di non democraticità del suo governo.

Sembra quasi un accerchiamento, ma è giusto anche riportare come dal canto suo il governo non abbia favorito in nessun modo un ridimensionamento della crisi politica ed economica. Sul piano politico Maduro ha astutamente evaso il tentativo di referendum dell’opposizione che avrebbe voluto rimettere al popolo un’eventuale destituzione del governo (2017) allungando prima i tempi di valutazione della sua fattibilità per poi dichiararlo non valido. Sempre nel 2017 ha annullato ogni potere legislativo dell’Assemblea Nazionale andando a creare un nuovo organismo ovvero Assemblea Costituente. In questo modo è stato eliminato un organismo che nel 2015 era stato assegnato mediante elezioni, in maggioranza all’opposizione chavista, per farne eleggere uno nuovo a maggioranza indiscussa chavista. Una strategia alla quale si è prestata anche l’opposizione stessa estromettendosi dal nuovo voto con proteste e astensionismo. Meccanismo poi ripetuto nel 2018 durante le elezioni presidenziali del paese in cui Maduro ha praticamente confermato la propria leadership dinanzi ad un’opposizione più propensa alla protesta, all’astensionismo e alla ribellione violenta che alla ricerca di un confronto politico tenace e costante.

Sul piano economico invece la crisi generata dal prezzo del petrolio persevera per i più svariati motivi: nel paese si è innanzi tutto innescata una cavalcante inflazione che ha ancor più sottolineato come il paese sia dipendente dall’importazione della gran parte dei beni basilari. Svalutazione del Bolivar venezuelano che non fa perdere fiducia nel governo chavista sull’elargizione generosa di misure assistenzialistiche. Tale approccio tuttavia non fa, come in passato che generare una finta classe media che in realtà non contribuisce alla vita economica attiva del paese, ma assorbe solo il surplus generato dal settore pubblico. Con il subentro della crisi e dell’inflazione tale classe media si è ritrovata povera e in tale situazione ha finito con il riversarsi tra le file dell’opposizione di governo. Seppur pregevoli le attività assistenziali volte all’estirpamento della povertà e la redistribuzione di ricchezza e servizi basilari (istruzione, sanità, etc) le stesse avrebbero dovuto avere una progressione temporale discendente in modo da reintrodurre i beneficiari nella vita economica attiva del paese. Ma per fare ciò sarebbe dovuto esser stato sviluppato un piano economico e infrastrutturale capace di scardinare il petrolio dalla posizione baricentrica nell’intera economia. Le infrastrutture avrebbero garantito una maggiore integrazione tra la zona costiera e l’entroterra del paese, mentre l’incentivo all’imprenditorialità privata nei più svariati settori tra cui la manifattura e l’agroindustria avrebbe potuto dare dinamismo in prospettiva di un’economia nazionale autosufficiente. Nulla di tutto questo però e quindi oggi il paese soffre terribilmente la propria dipendenza dall’export con una moneta incapace di giungere al conseguimento di un paniere di beni idoneo alla sopravvivenza. Risposta del governo in luglio è stata quella di rilanciare la necessità di evolvere e sviluppare un nuovo piano economico fondato sulla diversificazione produttiva che tuttavia (paradosso) passa da una stabilità finanziaria raggiungibile solo grazie alla creazione della criptovaluta Petro strettamente connessa al prezzo del petrolio. Criptovaluta che a sua volta regolamenta il valore di una nuova moneta nazionale, il Bolivar Sovrano che sostituisce la precedente valuta vittima per il governo, della speculazione finanziaria.

Allo stato attuale, concludiamo, possiamo prendere atto che la situazione non è affatto semplice, ma che allo stesso tempo trova le colpe scatenanti in più attori: il governo incapace di uscire dalla dialettica antimperialista per procedere in una programmazione politica ed economica pragmatica; la regione ovvero i paesi vicini che in linea con Washington spingono fortemente per un’ingerenza nei confronti di Caracas (ricordiamo che il Venezuela è in possesso della più grande riserva petrolifera mondiale); Washington che come detto ambisce al controllo politico di un paese strategico per risorse energetiche disponibili; l’opposizione al chavismo che invece di dibattere politicamente fa della violenza il proprio unico metodo di comunicazione. E chi paga per tale confusa situazione? Il popolo ovviamente, che diventa strumento per comprovare l’una o l’altra ragione in una partita a scacchi in cui con ogni probabilità sarà l’unica parte sconfitta.