Mercoledì 23 gennaio l’opposizione scende in piazza in tutto il paese caraibico in protesta contro il governo e contemporaneamente il presidente dell’Assemblea Nazionale, Juan Guaidó, si autoproclama presidente temporaneo del paese. Il governo chavista chiama il popolo a scendere in piazza in difesa della democrazia e rompe le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti. Gli scontri di piazza fanno registrare 14 morti.

Questa la sintesi di una giornata vissuta in tutto il Venezuela. Ma occorre dire che uno scenario simile era più che prevedibile e che pur riguardando nella cronaca il singolo Venezuela, ha in vero una portata ben più ampia se si guardano congetture e strategie geopolitiche regionali e globali. Pertanto una corretta analisi deve partire da una visione interna del paese Venezuela per poi collocarsi nel contesto regionale e in fine globale per poi ritornare ad una collocazione interna al paese stesso.

La crisi interna. Il Venezuela vive una costante se non crescente situazione di crisi dal 2014 ad oggi. Con la morte di Hugo Chavez (2013) e l’elezione di Nicolas Maduro alla presidenza il partito socialista (PSUV) ha mantenuto una connotazione ideologica chavista ovvero fondata sul proseguo della visione politica, economica e sociale del suo leader massimo. Questa scelta però ha determinato nei fatti una battuta d’arresto ad ogni possibile evoluzione del progetto facendolo rimanere pericolosamente ancorato al passato. Una scelta che quindi sin dall’inizio ha trovato un tiepido ottimismo nell’elettorato (50,78% dei voti in favore di Maduro) e di contro ha evidenziato una vulnerabilità nei confronti dell’opposizione. La stessa opposizione in apertura del 2014 ha subito esposto il proprio disappunto nei confronti del governo manifestando in piazza per richiedere maggiore sicurezza sociale nel paese. Una protesta che seppur mossa da validi motivi è ben presto degenerata in una violenta contestazione. Da questo momento in poi si sono susseguiti nel paese arresti eccellenti come quello dell’oppositore chavista Leopoldo Lopez e morti violente. Una condizione instabile che ha portato Obama, allora presidente degli Stati Uniti, a dichiarare il Venezuela una minaccia per la propria sicurezza e quindi punibile con sanzioni finanziarie. Le stesse sanzioni sono state poi confermate e ampliate da Tramp sino ad oggi. Ma le sanzioni qui descritte hanno avuto un effetto amplificato con il contemporaneo crollo del prezzo del petrolio a livello internazionale evidenziando inequivocabilmente tutti i limiti dell’economia venezuelana. Infatti, il paese caraibico, ha da sempre sofferto la propria conformazione di economia monoprodotto e imprescindibile dalle ricchezze petrolifere del Bacino dell’Orinoco. Ricchezze che hanno sì permesso di sostenere le politiche assistenziali interne al paese e riequilibrare la distribuzione delle ricchezze interne, ma di contro ha ritardato lo sviluppo di altri settori fondamentali (come l’agroindustria) per il riequilibrio sostenibile dell’economia interna. Pertanto la crisi petrolifera del 2014 non ha fatto altro che spingere il governo venezuelano in uno stato di sofferenza finanziaria poi riflessosi nella galoppante inflazione e nella regressione di gran parte della popolazione in uno stato di povertà. Tutte le misure apportate sino ad oggi per mitigare questa regressione sono risultate vane: creazione di una criptovaluta (Petro) collegata al petrolio (contraddizione per un paese che vuole diversificarsi nel sistema produttivo), creazione di una nuova moneta (Bolivar Soberano) presto svalutatasi, continuo innalzamento del salario minimo.

Lo stato di sofferenza sociale si è poi evidenziato con le elezioni politiche per il rinnovo dei membri dell’Assemblea Nazionale in chiusura 2015. Una netta sconfitta per il PSUV e il governo dato che l’organo legislativo è finito sotto lo stabile controllo maggioritario dell’opposizione. Per evitare un blocco legislativo all’interno del paese, il governo ha inteso nel 2017 evadere il confronto con l’opposizione ed ha indetto l’elezione dei membri di un nuovo organismo legislativo ovvero l’Assemblea Costituente. Torna il controllo chavista sulla legislazione ma non il riequilibrio sociale nel paese con l’opposizione che amplia il proprio raggio d’azione andando a cercare legittimità delle proprie istanze all’estero. Henrique Capriles Radonski è l’uomo designato tra il 2016 e il 2017 ad incontrare le più alte cariche di stato dei paesi della regione (Argentina e Paraguay) e poi avviare un tavolo di dialogo con l’OSA (Organizzazione degli Stati Americani). Un lavoro minuzioso e diplomatico (pur non essendo legittimo in quanto un membro non governativo non potrebbe essere ricevuto dalle alte cariche di altri paesi in rappresentanza del proprio paese) che ha permesso di insinuare sempre di più nell’opinione pubblica internazionale l’idea di un governo (quello di Maduro) non democratico e quindi incostituzionale e illegittimo. Intanto a Caracas continuano gli scontri e le pressioni sul governo portano lo stesso a ripetuti errori di strategia politica: uscita dall’OSA e chiusura dei dialoghi con gran parte dei paesi della regione, continua dialettica antimperialista e antistatunitense, perpetrato scontro con l’opposizione che dal canto suo non desiste dal protestare violentemente in piazza. Una situazione che ha portato Caracas ad essere sospesa anche dal Mercosur e alla conseguente perdita di un tavolo di dialogo con i paesi vicini. Tutto ciò si è trascinato pericolosamente sino al 2018 anno in cui le elezioni presidenziali sono state fortemente contestate da un’opposizione (assenteista nella corsa alla presidenza) ma che hanno visto la conferma di Maduro con il 60,84% su un flusso di votanti poco rappresentativo (l’opposizione parla del 30% mentre il governo attesta le affluenze tra il 40 e il 50%). Situazione tanto critica quanto preoccupante e che vede l’incalzare di tentati colpi di stato sedati sul nascere dalle forze armate (ultimo l’assalto di 27 militari ad una caserma della Fuerza Armada Nacional Bolivariana lo scorso 21 gennaio), un attentato ai danni di Maduro (4 agosto 2018) e in fine l’autoproclamazione alla presidenza di Juan Guaidó (23 gennaio).

La situazione regionale. Strategicamente parlando, l’ultimo tassello per definire uno scenario regionale antagonista al governo chavista era dato dalle elezioni presidenziali brasiliane dell’ottobre 2018. Con il consolidamento di un blocco importante di derivazione neoliberista (o di destra che dir si voglia) l’accerchiamento ideologico del Venezuela appare completo. Bolsonaro in Brasile si aggiunge ai già consolidate presidenze neoliberali di Colombia, Argentina, Paraguay ed Ecuador. Ma proprio il Brasile per importanza economica e politica rappresentava l’ago della bilancia per intraprendere una pressione esterna e quasi ingerente nei confronti del Venezuela. L’antagonismo ideologico è solo una parte delle motivazioni che proprio ieri hanno spinto i governi dei citati paesi con l’aggiunta di Perù, Stati Uniti e Canada a riconoscere immediatamente la presidenza di Guaidó. La regione già nei precedenti giorni aveva indicato come illegittimo il governo di Maduro (Gruppo di Lima – dichiarazione del 4 gennaio), ma nei fatti appare chiaro un allineamento strategico in favore di un alleato tanto ambito: gli Stati Uniti. Tutti i paesi citati hanno infatti una forte propensione al rilancio finanziario ed economico in chiave neoliberista e per tale motivo non possono prescindere dall’assecondare le strategie statunitensi nella regione. Ragion per cui con l’ascesa di Bolsonaro anche per Washington la questione venezuelana diventa meno difficile da gestire visto che ogni strategia politica (o non) si articola in un contesto regionale favorevole e collaborativo alla stessa. Restano gli amici del chavismo (Bolivia, Cuba, Nicaragua, El salvador) e gli astenuti (Uruguay e Messico), ma a livello regionale ormai l’ago della bilancia si muove in modo determinante verso il non riconoscimento di Maduro quale presidente del Venezuela.

Nel mondo invece lo schieramento mantiene una connotazione classica ovvero Stati Uniti, Canada riconoscono Juan Guaidó e l’UE timidamente sembra voler seguire Washington, mentre Turchia, Russia e Cina si schierano apertamente in favore di Maduro. Proprio la Turchia, in rotta con gli Stati Uniti e sempre più vicina alla visione geopolitica di Mosca, aveva stretto nei giorni scorsi un accordo sull’oro con il governo venezuelano. Un accordo che appare dettato dalla necessità di evadere le sanzioni statunitensi e indispettire la Casa Bianca. Detto ciò non si può non vedere in tutta questa crisi riguardante il Venezuela un coinvolgimento logistico e di intelligence del governo statunitense. Gli interessi di Washington nello specifico sono di doppia natura: da un lato le risorse energetiche (petrolio) nazionalizzate dal governo chavista e potenzialmente utili al rilancio globale dell’economia statunitense; dall’altro lato la visione geopolitica statunitense resta quella di riacquisire terreno sull’espansionismo economico dei suoi competitor (Russia e Cina) e proprio il Venezuela di Maduro oggi è un partner necessariamente da sottrarre a Pechino e Mosca per un ripristino della Dottrina Monroe nell’itera regione latinoamericana.

Le accuse di Maduro questo 23 maggio sono dirette proprio alla Casa Bianca, individuata quale protagonista attiva del colpo di stato in essere nel paese. Ecco perché lo stesso Maduro ha intimato a tutti i diplomatici e funzionari statunitensi presenti nel paese di tornare nella propria patria. Una rottura ufficiale delle relazioni tra Venezuela e Stati Uniti che tuttavia incontrano la resistenza di Washington che, dopo essersi affrettata a riconoscere il governo di Guaidó ha anche fatto presente che non intende richiamare i suoi diplomatici dal paese caraibico. Ciò appare come un’ammissione di colpa per l’attuale situazione in essere e un’ammissione di volontà nel perpetrare la strada ormai segnata. Quella che è la situazione ad oggi in Venezuela è quella di un paese allo sbando con la legittimità/ non legittimità di due governi allo scontro dove quello di Maduro viene sottoposto a grandi pressioni (vedi anche il mantenimento di diplomatici statunitensi in loco per ordine della Casa Bianca) in attesa di un passo falso capace di legittimare un’ingerenza ben più esplicita da parte delle forze in gioco. La diplomazia è in azione per trovare una soluzione, ma appare chiaro che le condizioni uniche accettabili da parte di Washington e alleati siano la destituzione di Maduro e nuove elezioni nel paese per giungere ad una soluzione “desiderata”. Rimarrà da capire come reagiranno i paesi che non vedono legittima la destituzione di Maduro e soprattutto occorrerà capire se e come Maduro accetterà un dialogo con le opposizioni ormai fuori controllo. La violenza intanto impervia nel paese e a pagarne le conseguenze è un popolo che a prescindere dallo schieramento, finisce con il rappresentare solo una pedina sacrificabile nello scacchiere geopolitico globale.