Sembrava ieri, quando il mondo si era svegliato il 9 novembre 2016 e, a dispetto di quanto tutti gli esperti della politica americana avevano pronosticato, il magnate newyorkese Trump stava già preparando il discorso del suo insediamento come 45esimo presidente degli Stati Uniti, dopo una durissima campagna elettorale con la sfidante democratica Hillary Clinton.

Due anni dopo, come da tradizione si torna al voto, ma non per eleggere il presidente, bensì la Camera dei Rappresentanti e un terzo del Senato (che si rinnova completamente ogni 6 anni).
Martedì 6 novembre saranno 435 i seggi della Camera e 35 su 100 quelli che potrebbero cambiare colore, oltre il governo di 39 realtà locali, fra gli Stati e diversi ambiti territoriali. Un’elezione di medio termine per l’esecutivo che mai come quest’anno darà delle risposte importanti, da parte dell’elettorato, alle politiche di Trump.

Sono delle elezioni molto attese, in quanto anche solo tutte le azioni contestate e le carte sul Russiagate raccolte dal procuratore Robert Mueller, attendono gli esiti del voto per capire se ci può essere margine al Congresso per processare il presidente, per un impeachment di cui si vocifera da oltre un anno. La realtà è però rappresentata da un partito repubblicano molto forte in entrambe le Camere. Quello che gli oppositori di Trump auspicano è che ci sia alle urne un’ondata blu che sposti gli equilibri nel “Parlamento” statunitense. Se il Senato per i Dem rappresenta un’impresa, non impossibile ma comunque molto difficile, data l’ottima performance dei loro candidati in campagna elettorale, alla Camera nutrono molta speranza che possa avvenire un ribaltamento. Un trend fisiologico quando il presidente appartiene all’altro partito, ma mai così importante come nel corso di questa presidenza.

In questo modo gli Stati Uniti si preparano a un’altra tornata elettorale dall’esito incerto, perché quanto accaduto negli ultimi due anni riflette le promesse fatte da Trump durante la campagna elettorale prima di essere eletto, ma anche tutti i problemi e le avversità che questa linea politica ha sollevato. In 24 mesi la nuova America ha cambiato volto su tanti fronti, soprattutto nella politica estera, suscitando diverse perplessità, ma sembra essere ripagata, almeno nel breve termine, dall’economia. Il nuovo accordo con Canada e Messico, migliorativo rispetto al Nafta del 1994, è sintomatico. Un’intesa che non piace solo agli imprenditori e ai mercati di un’economia che ha abbassato la disoccupazione e rilanciato la crescita, ma ha ottenuto molto anche per i lavoratori.
Il negoziatore Robert Lighthizer ha ottenuto l’ok sui salari minimi più alti, sul diritto di sciopero e sulle visite dei sindacati in fabbrica. Sono tutti obiettivi che Barack Obama non era mai riuscito a raggiungere e combatte la concorrenza sleale del passato di altri Paesi come il Messico e i prezzi del lavoro al ribasso. Sarà da vedere quanto gli statunitensi penseranno all’economia recandosi alle urne.

In politica estera, l’isolazionismo Trumpiano e il ribaltamento delle alleanze rispetto alla precedente presidenza ha segnato lo scacchiere internazionale. Già nel 2017 l’abbandono degli accordi di Parigi sul clima aveva destato preoccupazioni. Una posizione che garantisce maggiore crescita all’economia, ma che rimette gli Stati Uniti nel ruolo di uno dei Paesi più inquinanti al mondo, con possibili serie conseguenze in futuro.
Similmente, la guerra dei dazi è una scelta che vuole rilanciare il Made in Usa, ma che potrebbe portare gli altri Stati a ripensare i propri rapporti commerciali. Da qui la volontà di Trump, ora che al posto del Nafta è stato trovato un nuovo patto, di rilanciare accordi commerciali con i Paesi europei, dopo il fallimento del patto Transatlantico (Ttip).
Se Siria e Medio Oriente rimangono un’area di conflitto con la Russia, sul fronte Iraniano Trump ha mostrato maggiore durezza, accusando da sempre Teheran di cooperare con il terrorismo. Evidente come l’allontanamento degli Sciiti, eloquente il rigetto dell’accordo sul nucleare da parte della Casa Bianca, sia stato compensato dal riavvicinamento di Washington alla monarchia saudita e a Israele. Un accordo commerciale da miliardi con Riad e lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme a dimostrarlo.
Infine, non meno importante, il rapporto di amore e odio con il leader nordcoreano Kim jong-un. Dagli insulti via Twitter alla luna di miele nel corso di un incontro inedito fra i due capi di Stato il 12 giugno scorso, al quale potrebbe presto aggiungersi un secondo.
Tante scelte nette che lasciano diversi interrogativi. Se queste sapranno conservare per Trump il controllo del Congresso oppure se saranno decisive per una rimonta dei democratici in un’epoca di post-verità, dove anche le battaglie di #MeToo, come nel caso del nuovo giudice della Corte Suprema Brett Kavanaugh, si riconducono a tifoserie ideologiche, senza poter prendere più in considerazione i fatti. In fondo anche lo stesso Trump è accusato da almeno due donne.
Come presidente ha seguito quanto aveva detto nella campagna elettorale. Gli esiti del voto di midterm diranno se la coerenza fine a se stessa basterà per conseguire un altro successo o se gli americani negli ultimi due anni avranno cambiato idea.

Lorenzo Nicolao